Ti spedisco in Convento

 

Ti spedisco in Convento

Da anni non guardo più la tv “generalista” ma fra una riunione, mille telefonate, articoli da scrivere, post da rivedere, ogni tanto seguo una mia vecchia passione, quella del cinema, e dei prodotti televisivi, passione ereditata da un antico mestiere, quello del “Videotecaro”, infatti ho esercitato la nobile professione dal 1984 sino al 1995. Nei VHS come nei libri, dischi e fumetti, ho dilapidato capitali, sottratti all’impegno politico, di questo chiedo umilmente scusa. Come mi devo scusare con i lettori se oggi parlerò di un argomento futile, un format, parola anglosassone che identifica quelle trasmissioni spazzatura d’oltreoceano che intasano ormai tutti i palinsesti. Per questo ho anche pagato (ben 99 centesimi), in quanto presente su una piattaforma streaming specializzata in documentari. Complice la segregazione, in orario post coprifuoco, mi è caduto l’occhio su Ti spedisco in Convento. Finite le case, le isole, i collegi e le caserme, location di altrettante fortunate serie, in questo programma in 4 puntate vediamo 5 ragazze poco più che adolescenti (come recita il trailer : “che seguono la cultura del bere, del sesso sfrenato, del narcisismo, del denaro come fonte di felicità e dei social come unica proiezione della realtà”), spedite nella penisola sorrentina, in un bellissimo convento  affacciato sul mare, casa della Congregazione delle suore oblate del bambin Gesù.

Le 5 ragazze sono Martina, detta Wendy, 18 anni, di Bibbiano in provincia di Reggio Emilia, una via di mezzo fra una “hikikomori” (parola dal giapponese hiku “spingere” e komoru “fuggire “che identifica una persona che ha scelto di scappare fisicamente dalla vita sociale), ed una Dark anni 80, con tanto di collare borchiato e capelli azzurri stile fatina di pinocchio. Sofia 22 anni originaria di Jesolo ma residente a Los Angeles, con un fidanzato molto più grande di lei, che le fa trascorrere l’intera esistenza fra feste, lussi, eccessi e viaggi in jet privato. Sua una frase che passerà alla storia: “Le scarpe sono come le mutande, vanno cambiate tutti i giorni”. Stefania 23 anni di Milano, amante dei superalcolici, delle feste e di una vita senza nessuna responsabilità. Valentina 19 anni di Bologna frequenta Giurisprudenza, con un ego smisurato. Emilia, detta Emy,  22 anni di Napoli cubista per una discoteca,  ama i divertimenti l’alcol e gli uomini sposati.  A cercare di riportare sulla retta via questi 5 demoni, altrettante Sorelle, Suor Daniela 72 anni Madre Generale della Congregazione. Suor Monica 52 anni, Madre Superiora , Suor Felicita 76 anni , Suor Arleide 47 anni e Suor Analia 28 anni. Gli attori in campo ci sono tutti, ma non immaginatevi ambientazioni tipo “Warrior Nun” o scene pruriginose alla “Monaca di monza”, la serie, è una rappresentazione reale della desertificazione valoriale dei nostri giovani. Nell’evolversi delle puntate, scopriamo che le 5 “bad girls”, in realtà non lo sono, sono solo vittime, vittime di padri nella migliore delle ipotesi assenti, se non sconosciuti, di madri sole,  in perenne ricerca di un nuovo amore, e di una nuova vita, e che non hanno tempo o voglia di educare i propri figli. Le ragazze sono costrette dalle suore “aguzzine” ad abbandonare i cellulari, vestirsi con indumenti atti a coprire e non a scoprire, ad alzarsi al mattino presto, a rifarsi i letti, a condividere il momento del desco, a fare piccoli lavori domestici, financo, esperienza che si rivelerà traumatica per molte di loro; a “toccare la terra”. Nelle 4 puntate vediamo le ragazze passare dalla sfida alla rassegnazione, all’apprezzamento, 4 di loro resteranno sino alla fine, ed alla fine in un addio fra pianti ed abbracci l’ammissione di essersi sentite “amate”. Fuori dal convento sono certo che le ragazze non diverranno delle sante, ma forse capiranno il significato dell’antico proverbio “i soldi non fanno la felicità”. Il sorriso delle religiose riempie lo schermo ben più delle forme delle pur avvenenti ragazze. Mi riecheggia nella mente ed una frase della Madre Superiora Suor Monica : “Non vado in guerra per perdere”, che suona più tratta dall’arte della guerra di Sun Tzu , che dal nuovo testamento. Lei ha vinto la sua nella trasmissione e nella fede. Noi cerchiamo di vincere le nostre in famiglia, con i ns. figli e/o nipoti, e con i ns. giovani militanti, cerchiamo di essere presenti con un “si” in meno ed un sorriso in più.  La gioventù di oggi appare apatica e rassegnata, vedono in un mondo di: “(..)  cultura del bere, del sesso sfrenato, del narcisismo, del denaro come fonte di felicità e dei social come unica proiezione della realtà”. Non possiamo spedirli tutti in Convento, porgiamo l’orecchio, forse chiedono solo di essere ascoltati.

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