Nel giugno scorso si è compiuto il 160mo della morte di Camillo Benso conte di Cavour, ovviamente nel disinteresse quasi unanime. Non si vuole, con queste righe, fare l’apologia di quello che piaccia o meno è stato l’artefice più importante del processo che ha portato la comunità nazionale a organizzarsi come Stato, riaprendo così la questione ormai stantia e decisamente antistorica se per il Sud non sarebbe stato meglio restare sotto il legittimismo borbonico, per il centro avere il papa-re e per il nord continuare a essere amministrato dagli austriaci. È vero che molti governi nazionali e in specie quelli della cosiddetta Seconda repubblica sono stati in grado di far rimpiangere gli Antichi Stati, ma in un’epoca di geopolitica continentale continuare a soffermarsi su tali questioni è inutile. E quindi dannoso.
Il pensiero che si vuole sollecitare, cogliendo l’occasione della incelebrata morte del Padre della Patria, è piuttosto quello di comprendere, almeno a ciò che ci sembra, che la de-strutturazione del Risorgimento e il silenzio che avvolge personaggi e situazioni sia perfettamente collimante con il processo di cancellazione dell’identità nazionale. Scriviamo identità al singolare perché questo processo coinvolge essenzialmente, se non esclusivamente, l’Italia. In nessun altro Paese ci si sognerebbe di non avere la data di nascita dello Stato nazionale come festa nazionale, oltre il nostro e difatti pressoché nessuno studente italiano la conosce.
Nell’Unione europea tutti gli Stati competono per affermare quello che una volta si definiva il sacro egoismo nazionale, tranne il nostro. Soprattutto in nessun altro Paese, come nel nostro, si cancella deliberatamente il mito fondante della nazione. Una nazione si riconosce in un mito perché l’unità si può guadagnare solo in una dimensione in qualche modo extrastorica, poiché la storia è inevitabilmente divisiva; così è storicamente vero che il Piemonte ha invaso gli Stati borbonico e pontificio in assenza di qualsivoglia atto di guerra; è vero che l’occupazione del Mezzogiorno non è stata certo rose e fiori; ed è altrettanto vero che l’amministrazione austriaca è stata un modello di efficacia. Ma tutto questo scolora o dovrebbe scolorare dinanzi al mito costituito dal Risorgimento come processo in cui gli italiani – volenti o nolenti, pacificamente o con la forza – si sono ritrovati come unità di destino. Se ciò non avviene è proprio perché la propaganda antinazionale di cui è stata ed è protagonista non solo la sinistra, trova vantaggioso sottrarre agli italiani la sorgente mitica dello stare insieme.
Che ciò sia vero, ci sembra, è testimoniato dal fatto che alla demolizione del Risorgimento ci si è ben guardati di contrapporre un altro mito fondante. Ecco perché, oggi, si deve parlare di Risorgimento tradito e non più, come facevano il fascismo e persino la resistenza, di Risorgimento incompiuto.
Foto: Angela Pellicciari, Risorgimento anticattolico, Fede & Cultura, Verona, 2018.