Il mondo pare ci sia davvero. Ma esso dipende dal binario identitario che siamo obbligati a seguire e non può fare altro che portarci dritti dritti nella galleria della realtà.
Mondo esterno
La Scienza è arrivata al punto ineludibile. Dopo essersi dedicata anima e corpo a scomporre la cosiddetta realtà, dopo aver preso coscienza che stimare la natura piccola e grande attraverso categorie autoreferenziali e arroganti misurazioni con pretesa di Verità, è cosa utile sono ai fini della tecnologia quando non fine a se stessa, si trova ora al cospetto dell’intero, delle connessioni di tutto, della realtà come rete dai nodi interdipendenti, dell’inseparabilità dell’osservatore dall’osservato. In una parola, della coscienza.
Gli uomini hanno da sempre riconosciuto le caratteristiche della realtà olistica, ora al vaglio dell’ultima ricerca scientifica. Dall’epoca dei lumi e soprattutto della sua successiva vulgata, dette caratteristiche sono state sistematicamente lasciate fuori dal novero di studi degni di serietà, di vera conoscenza, detti scientifici, autoreferenzialmente concepiti come i soli, validi scandagli della realtà. Sempre quelle caratteristiche olistiche, se non potevano essere dimostrate e ripetute non avevano valore se non per il sarcasmo e la denigrazione. Se ciò, nel territorio della Scienza meccanicistica, è più che legittimo – la Scienza si è fatta le regole del gioco e chi vuol giocare deve rispettarle – in quello extra-scientifico, ovvero nella vita tutta, la negazione della profondità e del legame di tutte le cose, è stato quantomeno disdicevole.
La Scienza, non quella pura e trasparente, consapevole dei propri limiti, aperta per definizione ad aggiornare se stessa, ma quella spuria, intorbidita dal bigottismo specifico, farcita di dogmi, corrotta da interessi, che avanza a petto in fuori, preceduta da vessilli di verità definitiva, quella che ha permeato la cultura ordinaria facendo di noi, volgo e scienziati, suoi devoti scientisti, ha sempre delegittimato la ricerca umanistica. Non ha mai considerato necessario accreditare quanto non era in grado di misurare e catalogare. Oppure, ha indagato con i suoi inidonei strumenti ciò che i ciarlatani di qualunque risma, dal Buddha a Cristo, da Bateson a Heisenberg, da Feyerabend a von Foerster, andassero dicendo.
Ma è opportuno evitare di percorrere la medesima strada della negazione del non gradito, della delegittimazione, della riduzione di dignità. Tutte le espressioni umane hanno una ragione storica che le legittima. Così, per la gestione della vita empirica – in particolare per le grandi comunità – è stato necessario separare, catalogare, ed è simbioticamente venuta da sé la creazione del linguaggio logico-razional-duale. Totalmente funzionale alla bisogna amministrativa della vita. E quale realtà è descrivibile da un linguaggio ontologicamente separativo se non quella detta oggettiva, che tutti conosciamo, o meglio, che tutti condiziona fino al punto da considerarla la sola, unica e insostituibile?
All’interno di una concezione del mondo-oggetto, da noi separato, osservabile e identico per tutti che ne deriva, disinteressata alla coscienza, si procedeva come se l’esperienza fosse trasmissibile. Da cui le classificazioni e le gerarchie come ordine nuovamente, definitivamente, assolutamente unico e solo referente di verità. Soltanto certa psicologia, certa pedagogia, certa biologia e certa sociologia hanno saputo riconoscere che la realtà non è una stanza nella quale ci muoviamo ma si costituisce man mano attraverso la relazione, a sua volta modulata dal nostro sentimento e dai nostri più o meno egoici interessi.
Mondo interno
Il mondo è determinato dalla narrazione che ne facciamo. Il minimo comun denominatore di ogni narrazione è il linguaggio. Se questo, come avviene, determina un noi separato dal mondo, impedisce a sé stesso di assumere la prospettiva idonea per lo studio della coscienza, in quanto obbliga una ricerca con mezzi inidonei. Studiare come oggetto separato da noi, ciò che oggetto non è, né è separato da noi porta il discorso nella bocca fetente dell’ossimoro. Un’affermazione piuttosto vincolante. Che però rende impotenti le probabili scandalizzate reazioni quando per coscienza tutti intendiamo l’unità di tutte le cose. Anzi la matrice di tutte quelle cose che pensavamo tra loro indipendenti. La natura della coscienza è inaccessibile attraverso l’impiego del linguaggio dualista. L’unità di tutte le cose è riconoscibile individualmente, non è codificabile con passi didatticamente utili ad essere trasmessa a colui che non la vive.
Il magico intero della coscienza perde la sua dimensione quando l’approccio è analitico. Se così non fosse la tecnologia l’avrebbe già riprodotta. Forse si può avvertire la presenza della coscienza nell’atto creativo. Niente ci separa da esso. In esso siamo noi. Esso è noi. Essa è uno specchio nel quale ci riconosciamo, nel quale esperiamo il nucleo di noi stessi. Aspetti, questi sì, che si presterebbero ad essere proposti dalla politica e dall’educazione. Ma al momento sono castrati da moralità, ideologie, formalismi, culto dell’apparenza, intellettualismo (prevaricazione dei saperi cognitivi su quelli estetici).
Quando così non è, quando ci si emancipa dai campetti di gioco che la cultura meccanicista ci ha offerto per i nostri passatempi – viene da sé – che l’infinito, come il mistero sono in noi. Che è la coscienza che genera lo spazio-tempo sfondo di tutte le narrazioni, in particolare di quella che meglio conosciamo: la nostra biografia, in qualunque modo la si abbia costruita. Nessuno può farci gratuitamente dubitare di essa. In essa constatiamo l’oggettività del mondo nel quale serpeggia. Tutte le nostre considerazioni esprimono un’elaborazione del mondo, del prossimo, del cosmo, di noi stessi un istante dopo aver disteso sullo sfondo lo spazio-tempo da cui si genera proprio ciò vogliamo sostenere. Così a volte riconosciamo un percorso mentre avanziamo o ne perdiamo familiarità se separati dal tempo-spazio. In un caso sappiamo sempre dove ci troviamo e il mondo è davvero un oggetto frequentabile; nell’altro diviene ignoto e non capiamo perché ci troviamo lì. E la paura che deriva è nell’inacettazione di essere anche altro di ciò che credevamo di essere. Credere uccide la conoscenza.
L’inconsapevolezza di essere creatori di realtà, quella dei gioghi imposti dal linguaggio analitico e quelli di essere parte integrante di ciò che crediamo di poter descrivere attenendoci ai fatti, compongono una trinità che esprime la cosiddetta materia e la sua storia orgogliosamente oggettiva. Emancipati dal sortilegio che questa trinità ci impone, viene a mancare il terreno sotto i piedi alla storia, alle storie che consideriamo narrazione certa, ufficiale, al sapere cognitivo e al potere che attribuiamo. Ma, quando si riconosce che ciò che osserviamo è generato dal nostro personale spazio-tempo; che prima di crederlo fuori da noi, avviene dentro, tutto, da noi al cosmo è coinvolto da un cambio di paradigma che ribalta le più consolidate superstizioni scientifiche. L’oggettività dove va quando noi non la osserviamo, quando non la concepiamo?
La cultura è un grande fiume prevalentemente placido che scende all’oceano senza lasciarci il tempo di riconoscere la corrente che la muove. In essa, giocoforza, in tanti condividiamo la medesima narrazione, abbiamo la medesima formazione e costruiamo il medesimo tunnel di realtà. Improbabile basti farci presente che ciò che crediamo di osservare sia solo e soltanto nella nostra coscienza. Non basta farci presente che non c’è niente fuori da noi in attesa di essere esperito. E se qualcosa del genere avviene, si tratta evoluzioni individuali. Il fiume culturale in cui navighiamo lascia poco spazio a morte di ripensamento. Se – scimmiottando Freud – il principio di oggettività, ha valore per amministrare la storia, in campo umanistico è come un branco di elefanti nella cristalleria dove normalmente se ne metteva uno soltanto. C’è perciò tutta un’altra storia del mondo in attesa di essere raccontata. Anzi, di essere riconosciuta in noi stessi.
Dominio di realtà
È la storia del dominio di realtà. Se viviamo ogni oggetto, fisico o metafisico, con un senso, anche inconsapevole, di dominio, le intenzioni tendono a realizzarsi: nel tunnel troviamo la realtà che pre-sentivamo. Parimenti, qualunque oggetto, fisico e metafisico, con cui anche inconsapevole ci relazioniamo, con la convinzione sia per noi eccessivo, facilmente comporterà un insuccesso. In ambo i casi crediamo di avere a che fare con qualcosa di esterno a noi: una volta lo abbiamo vinto, un’altra ci ha vinto. In ambo i casi riteniamo di poter aggiungere un tassello di oggettiva verità alla narrazione della storia che facciamo. La responsabilità che abbiamo ci sfugge. Se così non fosse tutti noi avremmo buone opportunità per liberarci dal conosciuto e raggiungere noi stessi come matrice del mondo.
In funzione della linea di tunnel che abbiamo seguito nel labirinto di tutti gli eventi possibili, assistiamo alla realizzazione del solo mondo disponibile ai passi che l’hanno preceduto, alla concezione del mondo che istante per istante lo hanno preceduto. Tutta la conoscenza che vantiamo è definitivamente concernente gli strumenti che impieghiamo per indagare il campo di spazio-tempo che osserviamo, in cui costringiamo, senza sforzo alcuno, il mondo. Tra gli strumenti vanno annoverate le intenzioni che motivano l’indagine, la struttura delle personalità che li impiega, il contesto in avviene (in cui ogni momento è oracolo). In sostanza come dice Linde di Stanford, “L’universo [qualunque esso sia, nda] e l’osservatore esistono in coppia” (1). O, come dice Robert Lanza, “L’universo si accende grazie alla vita, non viceversa” (2).
L’identità che crediamo di essere implica campi di certezze e d’incertezza. Pochi i primi, innumerevoli i secondi. Come saggi piloti dirigiamo il convoglio di noi stessi su percorsi noti per condurci a destinazione. Strade percorribili in quanto le sole visibili ai sensi dell’identità, inetti a riconoscere la rete di vie alternative. Nelle prime incontriamo la realtà prevista. Questa ci appare così vera e concreta tanto da considerarla oggettiva e presente anche in nostra assenza, anche senza il nostro creativo presentimento di esse. Se qualcuno, con la sua semplice esistenza, ci segnala le vie che da soli non vediamo, concludiamo si tratti di fandonie. La nostra identità non contempla altro che il cibo che la nutre.
Il dominio come culmine di un’attestazione, genera certezza, genera materia oggettiva, sagoma la realtà. Con esso, autopoieticamente, produciamo continuità, permanenza, spazio e tempo. Elaboriamo parole, linguaggio e narrazione definitivamente adatte a fare quadrato. E uccidiamo la conoscenza. Ammazziamo la dimensione consapevolmente creatrice di cui siamo espressione.
“Facciamo finta che vi siete appena comprati una calcolatrice nuova di zecca e l’avete appena tirata fuori dalla sua scatola. Se premete sui tasti 4, x e 4 il numero 16 apparirà sul piccolo schermo, anche se i numeri non sono ancora mai stati digitati sul dispositivo specifico. La calcolatrice segue un insieme di regole, proprio come la vostra mente. Il 16 apparirà sempre su una calcolatrice funzionante quando verranno premute le sequenze di tasti 4×4, 10+6, o 25-9. Ogni volta che mettete piede fuori dalla vostra casa, è come se una nuova sequenza di tasti venisse digitata producendo quello che poi apparirà sul vostro «schermo» mentale […]” (3).
“Bernard d’Espagnat ha detto: «La non separabilità è ora uno dei principi generali più certi della fisica»” (4).
Le parti distinte del reale esistono solo con noi che, istante per istante, le generiamo, per interesse personale. Averne consapevolezza ci concede di seguire le vie della conoscenza che neppure vedevamo.
- Robert Lanza con Bob Berman, Biocentrismo – L’universo, la coscienza. La nuova teoria del tutto, Milano, Il Saggiatore, p.180
- Ibid, p.181
- ibid, p.183
- ibid, p.185