In uno dei testi più antichi della tradizione buddista si narra come il Buddha fosse al cospetto di Brahma e delle innumerevoli divinità che compongono l’universo sacro dell’Induismo. Fra costoro anche una, intrigante e malevola – se ne rammento bene il nome trattasi di Maru (una presenza malevola che ritroviamo, ad esempio, nella tradizione germanica, con Loki causa del “crepuscolo degli dei”, a ulteriore conferma delle origini indo-europee). Leggasi La dottrina del risveglio di Julius Evola da dove – credo – abbia tratto l’episodio qui riportato e libro utile a chi non intenda esaurire la conoscenza (?) del buddismo in una melassa di globalizzante buonismo e nauseante dogma della non-violenza. Maru – o comunque si chiami – provoca Brahma perché, sollecitandone la vanità, umili il Buddha. Così, tronfio di sé medesimo, egli elenca la somma dell’estrema sua possanza fra cui l’essere eterno, di cui si fregia ogni divinità in contrapposizione alla condizione apparente e finita dell’uomo. E il Buddha, umile e dimesso, gli risponde: “Ma tu puoi scomparire?”.
Non voglio inerpicarmi per sentieri ardui e scoscesi ove domina la metafisica, ove la fanno da padroni Essere e Tempo e l’eco di tante inquietudini e domande e risposte che costellano dell’Occidente la storia della filosofia e a cui mi sono attardato dietro la cattedra in una scelta – di cui fui felice e mai rinnegata – che fu la mia professione dopo che, da sedicenne insofferente e curioso, ascoltai dal mio professore di greco, che vantava essere stato discepolo di Goffredo Coppola (fucilato lungo la spalletta del lago di Como, sereno e fedele, consapevole che non vi era per lui altro mondo se non essere accanto a Pavolini e Bombacci), la nascita della tragedia e come potesse dischiudersi un universo infinito di eco rimandi assonanze (come riuscì in poesia ad Ezra Pound nei Cantos).
È solo una sorta di commiato, dopo aver scritto per alcune settimane – frammenti a cui avrei voluto dare un ordine più coerente e profondo – sul “nostro” Novecento di cui annotavo inquietudine e nostalgia. Come quei paracadutisti francesi che, armi in spalla e sguardo dritto e fiero, abbandonavano la caserma e la terra d’Algeria sulle note di “Je ne regrette rien!”… E, prima di loro, raccolto fra le dune del deserto, un pugno di sabbia in un sacchetto, a El Alamein, i sopravvissuti della Folgore (ringrazio ancora il giornalista Luigi Romersa per avermene fatto dono e in boccetta di vetro fa mostra di sé su un ripiano e s’accompagna ai miei libri).
“Non omnis moriar”, Orazio, inciso sotto una colonna dorica nel cimitero degli allori a Firenze ove è sepolto il pittore tedesco Arnold Boecklin, l’autore de l’isola dei morti, quadro tanto caro al cancelliere del Reich e la cui riproduzione fa parte dei miei più cari cimeli, acquistata a Berlino all’isola dei musei. Non v’è riferimento alla presunta resurrezione della carne solo il tragitto cupo e al contempo rasserenante viaggio in barca verso l’isola ove il tempo si fermerà alla riva e lo spazio delimitato dalla roccia e dal vento. Quel non morire del tutto, quel rendere testimonianza oltre il limite del tempo, libero dallo spazio delimitato… E il Novecento seminò tracce con il suo incedere sfidando tempo e circostanze, là e come vorrebbero ingabbiarlo, sfugge agli assassini ai servi petulanti ai giudici sciocchi per lanciare un grido fiero e disperato a scuotere le fondamenta del presente tristo e vile. E noi, altrettanto fieri e disperati marciamo con lui. Fregandosene dell’Eterno in nome del diritto di poter scomparire… ma, attenti voi guitti e saltimbanchi, il nostro canto non casualmente è dedicato alla giovinezza che balza ardita e fiera dalla trincea, ché potremmo tornare e trasformare i vostri sogni in incubo…
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