Franz Werfel fu scrittore austriaco di origine ebraica, appartenente a tutti coloro che furono partecipi e testimoni della dissoluzione dell’Impero asburgico preservandone a vario titolo una sorta di nostalgia (penso a Stefan Zweig e al suo Il mondo di ieri o al celebre L’uomo senza qualità di Robert Musil, dove però conta poco l’atmosfera dell’Austria al tramonto rispetto alla complessità e all’intreccio dei suoi personaggi), legato alla corrente dell’espressionismo, e divenuto famoso con I quaranta giorni del Mussa Dag, sull’eroica resistenza degli armeni contro il genocidio dei turchi durante la Prima Guerra Mondiale (confesso che non mi è piaciuto, narrativamente). L’altra sera, chissà per quale assonanza con i Talebani in armi per le vie di Kabul (una sberla o, in modo più gratificante, un calcio in culo agli “esportatori della democrazia”, quei “liberatori” del ’45 con i loro B52 stecche di sigarette e le tavolette di cioccolata da gettare alla folla simile a scimmiette da giardino zoologico). M’è tornato a mente un episodio – e ricordavo bene – tratto da una sua raccolta di racconti dal titolo Nel crepuscolo di un impero, edito in Italia (1942) dalla pregevole collana Medusa della Mondadori.
Lo trascrivo – ritengo sia episodio reale e vissuto dall’autore, che si era arruolato, pur d’indole pacifista, nell’esercito austro-ungarico, con mansioni ufficio stampa: “… durante la guerra mi recai una volta a Gemona, una cittadina delle Alpi venete, dove si trovava un Comando austriaco. Come soldato isolato … non trovai alloggio negli accantonamenti già strapieni della cittadina. Verso sera, …, capitai in una masseria, dove fui accolto cordialmente. Per un caso strano il podere non era stato adibito ad accantonamento. Mi fu offerta … una cameretta … I miei ospiti, un vecchio contadino ed una lunga e scarna contadina, vedendo che non avevo nulla da mangiare …, mi invitarono nella loro cucina. Qui mi misero davanti della polenta e un buon vino rosso. I due coniugi, che avevano anch’essi due figli in guerra dalla parte italiana … mi versarono abbondantemente da bere … Eccitato dal vino e da una simpatia per quella coppia, cominciai a parlare del mio amore per il popolo italiano, con tanto più entusiasmo in quanto, vestito dell’uniforme nemica, godevo dell’ospitalità di una casa italiana. … raccontavo ai vecchi contadini della gioia che nella mia vita mi aveva procurato la musica italiana; così dicendo ero convinto, nella mia lieve ebbrezza, di non essere compreso. Invece quella gente mi comprendeva a meraviglia. Infatti la donna scarna, …, balzò a un tratto in piedi e, alta nella sua veste nera e logora in mezzo al basso locale, parve la megera di un cupo entusiasmo. Senza fermarsi e senza confondersi, la vecchia contadina consunta dal lavoro recitò in versi echeggianti tutto il primo canto della Divina Commedia. Non era una bravata … non era una declamazione imparata chissà quando, era uno scoppio acceso ed animoso di patriottismo, più ancora di razza. Nella grande stanza rustica di Gemona per la prima volta mi ero sentito sfiorare dall’austero miracolo del sangue latino”.
Perché riportarne il contenuto? Non sono un “patriota”, nonostante la cura di mio padre a narrare del Risorgimento e della Grande Guerra, ancorato al Blut und Boden o a pretese e presunte virtù italiche – disprezzo, però, i dispregiatori, iconoclasti e cretini, che ne fanno beffa. Forse perché ho una sorta di nostalgia di gettare il cuore al di là e al di sopra di ogni ostacolo, fisico e mentale. E ritrovarmi adolescente con la pretesa – questa sì – di stringere il mondo fra le dita anche se, con il tempo, ti scopri essere come acqua che scivola e poca cenere dispersa dal vento. Ideali e sogni, però, carne ossa sangue.
Immagine: https://scenarieconomici.it/