APPROFONDIMENTI: Fine pena mai
Fine pena, mai. Così è scritto sulla matricola carceraria dei condannati all’ergastolo. Fine pena mai anche per noi, condannati a vita senza processo e senza colpa al Grande Reset, alla dittatura finanziaria, tecnologica, sanitaria. Lo afferma senza mezzi termini uno dei funzionari di più alto livello del Nuovo Ordine Mondiale, il geronte Karl Schwab, ispiratore del Forum Mondiale di Davos. Se lo dice lui, c’è da credergli.
Il suo ultimo libro, Stakeholder capitalism; a global economy that works for Progress, People and Planet (Il capitalismo delle parti interessate; un’economia globale che lavora per il Progresso, la Gente e il Pianeta – notate le maiuscole) è rivelatore: ripete che la pandemia è “una grande opportunità per realizzare una rivoluzione digitale, globale, transumanista ed ecologica. “Gli uomini del Dominio parlano chiaro. Peggio per noi se non li ascoltiamo, o se pensiamo che alle parole non seguano i fatti. Ci troviamo dinanzi a un’antropologia deformata, in una prospettiva atomista, materialistica diretta dall’alto, dagli autoproclamati illuminati. Contrordine. Democrazia, libertà, autonomia personale non valgono più: residui del passato.
Ogni progetto che contraddice la natura umana e l’ordine naturale delle cose è destinato al fallimento, ma intanto, quante tragedie, quanta sofferenza, quante vittime innocenti. Quando torneremo alla cosiddetta “normalità”? Schwab è formale: mai, risponde apertamente. Nessun complotto, nessun delirio paranoico di complottisti. E’ tutto sotto i nostri occhi, se ancora siamo capaci di vedere. Fine pena mai.
Ci pensavamo leggendo le notizie quotidiane che non impressionano più, né indignano. Un’occhiata, uno sbadiglio e via: una donna stuprata in pieno giorno da un clandestino, il governatore rosso scarlatto della Toscana che vuole rinchiudere in casa i criminali privi di salvacondotto verde, un calciatore di 36 anni, Ronaldo, che riceverà 25 milioni all’anno per giocare in una squadra di proprietà di un fondo arabo. Le solite cose, follie quotidiane a cui siamo assuefatti in questo strano ergastolo, castigo senza delitto. Un mondo a misura dei Demoni di Dostoevskij.
Stamane abbiamo visto una donna di oltre ottant’anni modestamente vestita, coperta sino agli occhi da una grande maschera fatta in casa, con le mani avvolte da guanti di lattice, che camminava faticosamente a zig zag sul marciapiede per evitare la vicinanza, cioè il respiro dei suoi concittadini. Una povera donna la cui fonte di conoscenza è la televisione sopravvive nel terrore, autocondannata a un ergastolo esistenziale per cui proviamo pena.
Viviamo tra i lupi in una distopia realizzata e non sappiamo neppure più distinguere l’amico dal nemico. Sul piano personale, abbiamo deciso: non resta che fingere, rifugiarsi nella follia, cercare la libertà in interiore homine, dentro di noi. Diventare anarchi, come il ribelle di Ernst Juenger. Essere legge a se stessi come difesa estrema, dietro il paravento della pazzia di cui Erasmo tesseva l’elogio cinque secoli or sono. Scrisse Julius Evola che la differenza tra l’anarchico tout court e l’anarca è che il primo vuole essere libero da tutto tranne dai suoi vizi e dalle sue bassezze, mentre il secondo non riconosce al mondo attuale alcuna legittimità e nessuna legge, cercando la libertà in se stesso, nel dominio di sé. Serve una savia follia, il cui primo gesto è riconoscere i lupi.
Il Colloquio dei cani è una delle Novelle Esemplari di Cervantes. Due cani si raccontano le rispettive vicende, intrecciate a quelle dei padroni. Uno dei due, Berganza, narra del tempo in cui fu cane da pastore e ogni notte udiva il grido: al lupo! Correva e si sfiancava senza mai trovare traccia del predatore, ma sempre mancava qualche montone o un castrato dei più grassi. Una notte, anziché scattare all’allarme, rimase fermo in vigile attesa e scoprì che i pastori erano i lupi. Erano loro a uccidere le pecore per rubare il meglio della carne, mangiarla o rivenderla. Berganza sulle prime pensa di denunciare l’inganno, ma poi resta quieto- è solo un cane – e riflette. “Chi avrà il potere di far capire che la difesa offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia ruba e chi ci fa la guardia ci ammazza? “
Sapienza dei semplici di ogni tempo: il potere è nemico. E allora, diamoci alla follia, ma con metodo, come Amleto, sfortunato principe di Danimarca. “Attenzione, perché al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico, è lui stesso il nemico. “(B. Brecht). Chi ha capovolto le parole, rovesciato il mondo, fatto del male il bene è il nemico. Pensiamo a quanto è grottesco affermare senza arrossire che esibire il green pass sia un atto di libertà. Può crederci solo un’umanità spappolata, spogliata di principi, che è passata dall’egoismo – che in fondo è solo un’esagerata considerazione di se stessi (Tocqueville)- all’egotismo, l’atteggiamento psicologico del culto di sé, del compiacimento narcisistico, dell’ostilità verso l’Altro.
Nel carnevale si indossava la maschera per dire la verità dietro il travestimento sino alla quaresima che restituiva il potere a se stesso. Da più di un anno e mezzo mettiamo la mascherina (ironico diminutivo…) per nascondere che conta unicamente la nostra individuale pellaccia e che ci siamo adattati senza fiatare a perdere tutti i motivi per cui la vita vale la pena di essere vissuta. Nella fiaba di Andersen, solo il bambino osava dire che il re è nudo. Oggi, mentre ci informano che presto mangeremo insetti e carne artificiale, che non potremo più muoverci liberamente, che il destino è la sorveglianza h. 24 e la morte “assistita”, che siamo espropriati anche del corpo dopo la fine dello spirito, della religione e della speranza, nudo è il popolo intero, coperto solo dalla maschera impudica che svela le nostre paure, la condizione di sudditi che baciano le mani di chi impugna il bastone.
Meglio la saggia follia di Enrico IV nel dramma di Pirandello. “Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! Voi dite: questo non può essere! e per loro può essere tutto.”
A un tratto, Enrico rivela ai suoi falsi consiglieri (il potere…) di aver recitato una parte. “Loro sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! Che! Che! È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandria! Misero, labile, incerto … E quelli ne approfittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come loro.” Il protagonista non sceglie di tornare alla realtà, decide di rinchiudersi nella follia per salvarsi dal dolore. “Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare”.
Non si resiste alla cruda verità. La via d’uscita di Don Chisciotte è sottilmente diversa. E’ un saggio autentico, si esprime come un filosofo, un dotto di altissima morale, di fede e saldi principi. Raddrizza i torti, soccorre le vedove, aiuta gli orfani, rende giustizia a fil di spada. Ma perché è diventato matto: troppe letture di romanzi sui cavalieri erranti, troppa confusione tra realtà e immaginazione. Il dover essere, il mondo in mano ai giusti diventa per Chisciotte un miraggio in cui gli osti sono castellani, le contadine principesse, le bacinelle da barbiere elmi che rendono invulnerabili, i mulini giganti da sconfiggere. Non lo scalfiscono le ferite, le bastonature, le derisioni, gli inganni delle sue avventure.
Se il pastore è un lupo, se il potere è nemico, meglio una controllata follia, l’unica condizione che permette di dire la verità. Ancora Cervantes e la novella del dottore Vidriera, cioè vetrina. A un neo laureato è somministrata una pozione d’amore. L’intruglio produce una grave malattia: il giovane Tommaso vive un’originale pazzia, quella di credersi fatto di vetro. Da allora, non permette a nessuno di avvicinarlo, ma diventa famoso perché sa rispondere a tono e dice la verità senza peli sulla lingua, protetto dalla doppia condizione di matto e di uomo di vetro. Passa le giornate prendendo in giro tutto ciò che lo circonda. Un religioso, infine, lo libera dal maleficio, ma, lungi dal renderlo felice, la condizione di uomo normale lo fa soffrire, sino alla decisione di arruolarsi nella guerra delle Fiandre dove viene ucciso.
Nella follia era critico, profondo e sarcastico. Le sue verità non convenzionali venivano ascoltate ed accettate perfino a corte, ma solo perché creduto un innocuo pazzo convinto di essere di vetro. La (supposta) pazzia appare l’unica forma nella quale si può svolgere una critica autentica. Il dottore Vidriera, intoccabile e trasparente come il vetro, diventa il portavoce della verità, degli oppressi, il solo autorizzato a dire ciò che molti pensano. Svanito l’incantesimo, non è più nessuno.
Il rapporto tra genio e pazzia è un tema antico. Pazzo fu il più grande dei poeti romantici, Friedrich Hoelderlin, che visse per oltre trent’anni in una torre della casa che lo accolse. Eppure gli dobbiamo liriche prodigiose e versi immortali, tra i quali il celebre “dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva “, posto da Martin Heidegger a fondamento della riflessioni della Questione della tecnica. Lo stesso Hoelderlin scopre, nella sua torretta di malato, che “poeticamente vive l’uomo”. Non dovremmo dimenticarlo, presi nel vortice della vita digitale, della corsa sfrenata senza meta in cui è trasformata l’esistenza. Per un altro romantico, Heinrich Heine, ci volle ben altro che un’idea di Dio per fare le cattedrali. Oggi, l’impresa di costruire una cattedrale sarebbe considerata insensata: a che serve?
Dal genio alla follia non vi è che un passo: un altro esempio è Friedrich Nietzsche, la sua visionarietà portentosa, il suo spingersi oltre ogni frontiera dell’umano. Si fece deserto dopo aver ammonito l’uomo moderno: guai a chi costruisce deserti dentro di sé. Solo uscendo dalla sedicente normalità si può guardare il mondo con occhi penetranti, attingendo frammenti di verità. Troppa luce, tuttavia, acceca. Per questo gran parte degli uomini preferisce prestare fede a ciò che gli viene fatto credere, sino a odiare chi pronuncia parole scomode. Don Chisciotte è un pazzo anacronistico e ridicolo, il dottor Vidriera un buffone i cui sproloqui servono a divertire, tutt’al più a stupire nobili e borghesi, il pensiero di Nietzsche è l’effetto collaterale di una malattia venerea.
Tuttavia, rappresentano l’antidoto all’oppressione di un mondo senza ideali, nichilista, senza sogni. Questo tempo malato in cui la salvezza sta nella finzione, agli occhi dei visionari in cui ci trasformiamo per difenderci, pare la concretizzazione dello Zahir di Jorge Luis Borges. Lo zahir è un oggetto che ha il potere di creare un’ossessione. Nel racconto di Borges, è una moneta da venti centesimi. La moneta è il simbolo del libero arbitrio, giacché può essere trasformata in qualsiasi cosa, ma il pensiero dello zahir fa perdere la percezione della realtà. Il suo possessore finisce per dover essere vestito, nutrito, accudito, ma non se ne angustia: è ignaro del suo destino. “Altri sogneranno che sono pazzo, e io sognerò lo zahir. Quando tutti gli uomini sulla terra penseranno giorno e notte allo zahir, quale sarà un sogno e quale una realtà, la terra o lo zahir? “
E’ il labirinto dal quale l’uomo contemporaneo si ritrae atterrito: troppo pensiero, troppa insostenibile paura. Basta con le domande. Che fai tu, luna in ciel? Nulla, non fa nulla, non ha alcuno scopo. Nel mondo ossessivo del Grande Reinizio, in cui diventiamo pazzi perché non riconosciamo più cose, volti, panorami, fatti, idee, fine pena mai. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.
Fonte: https://www.maurizioblondet.it/
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