Indro Montanelli riferiva questa amara considerazione resagli dallo scrittore (repubblichino) Ugo Ojetti: “Ma tu non hai ancora capito che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri, senza memoria” o peggio, aggiungiamo noi, ricorda ciò che gli è politicamente corretto rammentare, lasciando nell’oblio tutto il resto.
Il 4 Novembre festeggiavamo la nostra Vittoria (decisiva) nel I° conflitto mondiale, la Grande Guerra, scuole, fabbriche, uffici chiusi, era stata per decenni l’unica celebrazione trans-storica partita dal tramonto del liberalismo, grandemente onorata dal fascismo, sposata poi anche dalla Repubblica nata su ceneri e macerie della sconfitta del ‘45. Rimase festa nazionale fino agli oscuri anni di piombo cucendo come un ago generazioni assai distanti nel tempo e per fede politica, fino al 1976, III ° governo di Belzebù, o divo Giulio! Lui la declassò a giorno feriale, per di più a “festa mobile”, non solo, ma con l’ipocrisia da compromesso democristiano ne smacchiò il significato trasformandola in buonista festa delle Forze Armate e dell’Unità nazionale, più digeribile dal blocco della sinistra, storicamente ancorata al non interventismo.
Di quel IV novembre restano i riti stanchi di sindaci fasciati e trombettieri davanti ai monumenti ai caduti, una corona d’alloro, poche “autorità”, teste innevate, l’associazione volontari dei Carabinieri, il suono dell’inno di Mameli o il silenzio, qualche fotografia poi tutti a casa, la messa è finita perché non c’è stata. Manca la sacralità della fede nella Madre Patria, rimane una liturgia estetica, disconnessa dal sentire comune di figli affetti da amnesia e ignoranza, accartocciati nelle foglie dell’oggi.
Il IV Novembre del 1921, dopo un lungo viaggio da Aquileia a Roma su un treno a vapore (il 740), veniva deposta nel sacello al Vittoriano, sotto la statua della dea Roma, la salma d’ un soldato senza nome, scelto tra undici riesumati tra Rovereto e Monte Ermada, individuati da un’apposita Commissione. Fu Maria Maddalena Baisizza di Gradisca d’Isonzo, orfana del figlio caduto in guerra, a scegliere quella bara tra le altre, tutte eguali, poggiate in fila sul prezioso mosaico paleocristiano della Basilica d’Aquileia. Era anche lei una mamma rimasta senza spoglie del figlio, vuoto il sepolcro e non perché fosse risorto o forse sì, chissà, nel cuore di una madre gemma sempre una speranza, una foto lo rendeva vivo accanto a quelle scarne righe “Questo Comando compie il doloroso ufficio di partecipare alla S.V. la morte del soldato…”.
Una folla immensa, un serpente continuo lungo le sponde del binario, silenziosa, orante come i contadini di E. Millet, accompagnò nel viaggio il milite ignoto, lungo il tragitto, alle poche stazioni di fermata, ciascuno identificava quel caduto con la propria spina nel cuore, 1.240.000 morti tra militari e civili, quasi altrettanti i feriti, eppure quella salma era il simbolo o meglio il sunto di un Paese in un corpo, la lunga marcia del Risorgimento s’era compiuta con la Vittoria, e dal silenzio uscivan solo le note “Sicure l’Alpi… Libere le sponde… E tacque il Piave: si placaron l’onde… Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi, la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!” Il sangue aveva vinto la spada e la speranza forte era che avesse sconfitto anche l’oro.
Da frugolo curioso sbirciavo sulla scrivania di mio nonno avvocato, l’inchiostro nero nei calamai, il tagliacarte, la custodia pieghevole di pelle coi fogli bianchi e accanto un grosso fermacarte di bronzo con su scritto a rilievo “La guerra contro l’Austria-Ungheria…è vinta […] I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza” f.to A. Diaz – IV Novembre MCMXVIII. Dietro la scrivania teneva la foto incorniciata dell’unico fratello, in divisa da ufficiale, caduto in battaglia, sepolto in fossa comune, la salma mai più restituita, era il nostro “milite ignoto” ma più del lutto era forte l’orgoglio. Un’altra Italia.