Con gli occhi bendati verso il futuro

 

Con gli occhi bendati verso il futuro

Agli antipodi del totalitarismo – giusto per rispolverare Cusano – c’è solo un altro totalitarismo. Alla spinta centripeta esercitata dal nazismo e dal comunismo sulle libertà individuali per adattarle al letto di Procuste dello Stato tiranno, e al loro inutile sforzo per ridurre al minimo livello possibile l’entropia (cioè il disordine) nella relazione tra i singoli, e tra loro tutti e lo Stato, fa ora da contraltare – a quasi un secolo dal loro esordio – il tentativo, già in parte riuscito, da parte degli apostoli dell’iperliberismo, di imporre la tendenza opposta, quella centrifuga, che si sostanzia nell’esaltazione scriteriata dei diritti civili – associati surrettiziamente alla somma di tante piccole minoranze, come quella dei LGBT, o dei neri, o dei verdi, o degli arancioni  – a scapito di quelli sociali, come la sanità, la scuola, la casa, il lavoro e la sicurezza, che costituiscono il terreno sul quale si confrontano da tempo immemore il Mercato e lo Stato.

Le vicende del secolo scorso propongono, in ultima analisi, una rappresentazione didascalica di questa antinomia, un’istantanea caratterizzata da un insolente chiaroscuro: il nero e il bianco assoluti, con l’estromissione del grigio. Il pendolo che si era spostato verso i regimi totalitari si è poi allungato, nel tornare rapidamente indietro,  nella direzione di uno Stato sempre meno Stato e di un Mercato sempre più invasivo, che non fa alcuna distinzione tra uomini, cose ed animali, accomunandoli tutti nella logica del profitto. Alla jungla del capitalismo – sul cui albero genealogico compaiono appollaiati il consumismo, il liberismo e diversi altri ‘ismi’, una progenie rivoltante – lo scrittore Milan Kundera asseriva di preferire lo zoo del comunismo. Agiva in lui probabilmente l’effetto della trasformazione subita dagli abitanti del suo Paese, la Cekia, nel passare da sotto un regime controllato dai sovietici, che ignorava i diritti civili, ad un sistema che poteva dirsi “democratico” perché li ripristinava in blocco ipotecando, però, quelli sociali, sui quali si protendevano gli artigli del padronato redivivo e della speculazione internazionale. Sebbene quello di Kundera si attesti ai primi posti nella hit parade degli aforismi di successo, le differenze tra i regimi totalitari del ‘900 (il comunismo e il nazismo) e il sistema incontro al quale si sta dirigendo il capitalismo, nell’esasperare la propria natura e nel divenire il quadrato di sé stesso (l’iperliberismo), si annullano allorché viene adottata come punto di riferimento e come banco di prova la dimensione spirituale dell’essere umano, abbandonata nel labirinto senza via di uscita del Pensiero Unico: è ciò che avveniva allora, all’ombra di Hitler e di Stalin, ed è ciò che avviene anche adesso, mentre progredisce giorno dopo giorno, la tela ordita intorno a noi dagli ingegneri del NWO.

 Il fatto che abbia espunto la parola “fascismo” da quest’elenco non è dipeso da una distrazione dovuta all’età avanzata. Non c’è stato, a mio avviso, tanto accanimento  nei confronti di un fenomeno politico così distante dalla nostra epoca come quanto ne riserva al regime mussoliniano, cessato nel ’45, l’opinione pubblica formattata  dai narratori di storie del mainstream. Il fascismo è sorto come implicita negazione della democrazia, ma nessuno finora è riuscito a spiegare, con un’argomentazione esaustiva, in che cosa consista la superiorità morale dei governi cosiddetti “democratici” su tutti gli altri, compresi quelli dittatoriali, quando tale “democrazia” consente ai tre poteri, nominalmente separati, o almeno a due di essi, di fare chick to chick dietro le quinte, e quando, inoltre, i partiti che si contendono il maggior numero dei posti in Parlamento eccedono nell’autoreferenzialità (a danno dei cittadini che li votano) per essere poi liberi di corrispondere alle ingiunzioni delle lobbies.

A dispetto dell’inclito e del volgo che indulge nel parlare di nazifascismo, questo binomio, brevettato prima dai vincitori della guerra e poi dai loro sicofanti messisi alla testa del Paese, è privo di qualunque fondamento storico, salvo che non lo si giustifichi per le dissennate iniziate prese dal regime fascista per sintonizzarsi  sulla frequenza dell’alleato militare con la pagliacciata del passo dell’oca e con l’abominio delle leggi razziali, ma è innegabile come il fascismo e il nazismo non siano agli occhi dell’osservatore disincantato la stessa cosa, il primo essendosi posto sin dall’inizio l’obiettivo di conciliare la propria vocazione patriottica con una pronunciata  proiezione  verso la giustizia sociale, mentre il secondo, nel chiudersi dentro la pochezza del suo impianto teoretico, ne divenne una sinistra caricatura.

Se si volesse tradurre in uno schema il rapporto tra le quattro categorie evocate in questo post, proporrei una retta alle cui estremità compaiono da una parte l’iperliberismo, il comunismo e il nazismo, e dall’altro l’ordinamento democratico, nella sua accezione depurata dai suoi abituali pervertimenti: il Fascismo avrebbe una collocazione tutta sua, in un punto di questa retta che non sarebbe né troppo a destra, né troppo a sinistra, probabilmente nel centro. L’insistenza con cui  il mainstream esorcizza il fascismo, sostenendo di averlo ravvisato sotto le spoglie più disparate,  piuttosto che predicare contro la possibilità che il comunismo  e il nazismo  si riaffaccino sulla ribalta della Storia ammantati da una pelle di pecora (come il lupo che campeggia nella stemma della “Fabian Society”, un’accolita di  delinquenti che  raccoglie il fior fiore della massoneria internazionale, fautrice e fattrice  del NWO),  sarebbe divertente se  non rivelasse, al contrario, l’intenzione di spostare le antenne dell’opinione pubblica nella direzione sbagliata, e di impedirle di realizzare che si sta avvicinando “lesto pede” un totalitarismo molto più disumano e spietato di quelli apparsi nel secolo scorso.  La demonizzazione del fascismo è dunque uno specchietto per le allodole che  viene  utilizzato, in funzione di finalità politiche abilmente occultate,  per  costringere soprattutto i più giovani a tenersi lontani dalle domande cruciali che vertono sul Ventennio. Ne cito alcune. Se fu Mussolini ad ordinare l’assassinio di Matteotti  o se si trattò invece di un cadavere che gli fu gettato deliberatamente tra i piedi per  provocare  la fine delle sue “avances” verso i socialisti, per un Governo in comune. Se può considerarsi una dittatura quella in cui gli oppositori, come Nenni e  Buozzi, venivano strappati dalle grinfie dei nazisti per essere riportati sani e salvi in Italia, e un certo Gramsci consumava i suoi ultimi giorni in una clinica di lusso, assistito da persone che furono peraltro sospettate di averne provocato la morte su disposizione di Stalin e di  Togliatti, che non ne condividevano l’impostazione dottrinaria: tutto questo  mentre   coloro che dissentivano cadevano, o sarebbero caduti, a grappoli di migliaia e di milioni, nel tritacarne della polizia politica sovietica o erano risucchiati dal gorgo senza fondo della follia hitleriana.

Di più, si è fatta e si continua a fare terra bruciata intorno a questioni che debbono rimanere aperte, per negare ai volenterosi della ricerca  la possibilità di riemergere dagli archivi con un pescato diverso dalle false verità omologate  dal  mainstream o, quanto meno, quella di chiedersi, sulla scorta dei documenti e di mezz’etto scarso di logica, se la sagoma del “duce”  appesa per i piedi a piazzale Loreto non costituisca il riverbero di una  forma del tutto arbitraria di contrappasso, dal momento che era stato lo stesso Mussolini, in una lettera diretta all’ambasciatore tedesco presso la RSI, Rudolf Rahn,  a deprecare, con accenti accorati, la gratuità e la ferocia dell’eccidio compiuto in quel luogo dalle SS. Se – ancora –  si debba rinunciare a trarre qualche utile indicazione per il recupero della verità storica dal fatto che, contrariamente alle credenze  indotte dalla “vulgata”, furono i dirigenti del PCI ( ai quali non parve vero di potersi  schermare dietro la formula del “cui prodest?” per dare, molti anni più tardi, un nome e un volto  agli artefici della “strategia della tensione”) a conseguire un profitto  dall’assassinio del socialista Bruno Buozzi per mano dei Tedeschi proprio all’indomani del Patto di Roma che lo consacrava ai vertici del sindacato unificato, e a trarne uno, considerevole, dai tragici sviluppi dell’attentato di via  Rasella, per via della  rappresaglia che  tolse di mezzo, con una precisione e con una puntualità tutta teutonica, i  più titolati concorrenti del PCI, da “Bandiera Rossa” al colonnello Cordero di Montezemolo, in lizza  per assumere la guida della Capitale dopo la “Liberazione”: senza contare  i dubbi suscitati dall’inspiegabile linciaggio, a freddo, di Carretta, il segretario del questore  Caruso, che aveva assistito alla compilazione dell’elenco dei prigionieri destinati alle Fosse Ardeatine, e poteva raccontare in che modo, nella sorda tempesta  delle sollecitazioni e delle premure che gli arrivavano da ogni parte,  fosse stata svolta quella terribile operazione.

E ancora. Ancora. E ancora. Ho con me tanto di quel carburante – fatto di  giornate e di anni trascorsi,  circondato da appunti e di carte – che potrei continuare fino alla fine dei tempi, ma non è forse questa la sede, e  non era  mia intenzione redigere il database (troppo complesso e troppo lungo) dei veleni che hanno inzuppato le radici  della Repubblica.  Mi basterebbe, da  vecchio studioso di Storia, aver fatto scattare, a mo’ di scintilla, il sospetto che il divieto (oggi, significativamente, assai più severo di ieri, e di ieri l’altro)  di fare prospezioni nelle viscere del  Ventennio e, quindi, di divulgarne i risultati (perché ti lasciano marcire sugli scaffali di Amazon) vada ben oltre il  perimetro dello scontro tra stili e ideologie contrapposte.  È la tecnica con cui, nascondendo il passato, si preclude alle persone, specie a quelle più giovani, la visibilità del futuro.

 

Immagine: https://www.direnzo.it/

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