Una volta – ricordate? – si toglievano le tonsille ai bambini perché non si sapeva bene a cosa servissero, se non ad infiammarsi e a schiavardare la febbre. Poi, si scoprì che facevano parte del sistema immunitario, un argine contro il quale s’infrangeva l’onda d’urto delle infezioni respiratorie, e che per tale ragione spesso si sbrecciava e si sfaldava scatenando un doloroso risentimento. L’idea che il regime dei partiti assomigliasse alle tonsille si era affacciata alla mia mente tanti anni fa allorché essa ruotava intorno alla fattispecie dell’inutilità, ma, col trascorrere degli anni, a far data da quello in cui sulla scena politica sono apparsi gli angeli distruttori di “Mani Pulite”, c’è stato un adeguamento, nel senso che – essendo venuto meno il criterio dell’inutilità, rimosso dai progressi della ricerca scientifica, sulla funzione delle tonsille – cominciai a pormi un’altra questione: quella, cioè, se l’inutilità non rimanesse comunque a carico dei partiti, coi quali avevo stabilito un parallelo con le tonsille, e se essa – in una realtà caratterizzata da interazioni complesse, in cui tutto deve “tornare”, tra uscite ed entrate – non divenga di per sé puranche perniciosa, non già come una tonsillite che passa, ma come un cancro, che rimane e si riproduce incontrastato all’interno dell’organismo da cui è stato generato e legittimato – l’ordinamento democratico – fin tanto da ucciderlo.
Il partitino “Italia Viva” – il cui solo nome suscita, per contrasto, la tristezza di un funerale – conferisce, a dispetto delle sue dimensioni lillipuziane e della sua storia, che è quella di un’ephemera (così almeno si spera) una semplicità didascalica al concetto di “partito”, declinato nella lingua italiana. Mezz’etto di voti che si muovono, ora di qua, ora di là, per rompere l’equilibrio fra due masse tettoniche dello stesso peso, di qualche tonnellata ciascuna.
Ora, è difficile credere che il mandato ricevuto dai parlamentari eletti in altre formazioni (per la maggior parte transfughi del PD) che si sono spostati, armi e bagagli, a bordo della bagnarola di Renzi, sia stato quello di lucrare sull’equivalenza numerica dei due blocchi, di centro-destra e di centro-sinistra: tanto più che il programma politico che la creaturina di Renzi si è dovuta cucire addosso, per essere omologata, è solo un’accozzaglia di slogan e di trovate demagogiche (come quella di aver diviso equamente la responsabilità degli organi statutari tra maschi e femmine per compiacere Madame de Pompadour, per gli amici Elena Boschi). “Italia Viva” trae dunque la sua unica giustificazione dal fatto che, potendo far pendere la bilancia a destra o a sinistra, a seconda di come conviene di più a Capitan Uncino Renzi e al suo piccolo stuolo di bucanieri, ha acquisito una monumentale capacità di ricatto su tutti gli operatori del meccano istituzionale, in particolar modo sui peones del Parlamento che debbono fare le leggi, e moltiplica per enne, elevando alla massima potenza questa sua indecente prerogativa, per ottenere finanziamenti e regali da chi pensa, senza sbagliarsi, che questo 6 per 100 (qual è il valore presunto della compagine creata da Renzi) basti e avanzi per curvare l’attività politica, in tutte le sue sedi, in modo congeniale ai propri scopi e ai propri interessi.
Ciò spiega, ad esempio, come mai, attraverso la “Fondazione Open” siano arrivati così tanti soldi ad un partito così piccolo, da parte del regno saudita. A parte le riserve di indole morale sulla provenienza dell’obolo, ciò che dovrebbe richiamare l’attenzione, anche dei Servizi (dando purtroppo per scontata la marmorea indifferenza di Mattarella ai misfatti dell’uomo che lo aveva portato al Quirinale), è la tendenza a prendere soldi da potenze straniere (ieri i rubli che finivano nelle casse del PCI, ora i dollari elargiti da uno dei protagonisti dei giochi sporchi che si svolgono in Medio Oriente) col risultato che la politica estera che ne viene fuori ha sotto di sé un viluppo di radici che succhiano acqua inquinata: un pregiudizio letale, a monte, per le scelte destinate a fissare o a cambiare la posizione del Paese sul quadrante internazionale.
Al di là di tali implicazioni, che sono diffusamente sottovalutate, la biografia del partitino brevettato da Renzi risulta particolarmente allarmante là dove appare chiaro che in nessun momento della sua oscura esistenza c’è traccia di un coinvolgimento, sia pure episodico e marginale, dell’elettorato attivo o, per dirla, con enfasi risorgimentale, del popolo: una bella parola, in cui, impercettibilmente, anno dopo anno, l’accento della prima “o” si è trasferito sulla seconda, facendole assumere il suono di una pernacchia.
Quello di “Italia Viva”, tuttavia, non è un caso isolato. Esso è la rappresentazione, senza alcun velo, della metamorfosi al contrario subita dai partiti politici, che da farfalle colorate si sono trasformate in lividi bruchi. Per una definizione che risale alla preistoria della modernità (quindi all’epoca in cui ci si ammazzava nelle piazze con l’asta delle bandiere, mentre adesso si preferisce starsene quatti quatti in casa soprattutto quando è in atto la coscrizione per il voto), il partito politico è una sorta di nastro trasportatore che raccoglie e sistemizza gli interessi di una specificazione passabilmente omogenea della società civile e li trasferisce al livello delle istituzioni perché vengano vagliati e soddisfatti compatibilmente con quelli superiori della Nazione e dello Stato. L’anacronismo – con annesso inganno – sta nel fatto che per corrispondere a tale definizione i partiti politici dovrebbero uscire dalla mail e dallo schermo televisivo dietro i quali si sono trincerati dai tempi della Seconda Repubblica, eludendo, per ciò stesso, ogni forma di intimità con le masse, e che, all’interno della loro organizzazione qualcuno si ponga delle domande su quale sia in concreto lo stato del Paese: ciò, dal momento che il proletariato – il vecchio totem della Sinistra – si è estinto, e che la piccola borghesia è morta di asfissia per la rarefazione degli impieghi provocata dall’avvento del digitale, posto, comunque, che economia e cultura sono il dritto e il rovescio della medesima medaglia e che i valori – o i disvalori – sono delle sovrastrutture (marxianamente parlando, e un po’ me ne scuso) dei conti reclamati dal padrone alla serva, anche se talvolta, ma assai di rado, succede il contrario.
Questa figura – intendo, di colui che solleva lo sguardo al di là dell’orizzonte basso descritto dalle effemeridi, e s’industria nel cercare di capire quale sia la direzione ultima delle cose, nei partiti politici dell’evo moderno non c’è. Massimo Cacciari, povero diavolo – è stato buttato fuori a calci nel culo dai salottini della Sinistra radical-chic e diffidato a brutto muso dai rientrarvi (eventualità, questa, decisamente esclusa da lui meme). Gli è stata riservata la facoltà di fare cucù ogni tanto dalla TV, da dove regolarmente si ritira strappandosi di dosso cuffie e microfono, perché non se lo filano di pezza: nel gioco, crudele, delle parti che il proscritto tenta, con tutte le sue forze, di volgere a proprio vantaggio, vince sempre il banco, cioè gli emissari catodici del mainstream, che lo hanno scritturato per dimostrare che in democrazia (una salma impagliata che spalanca la bocca e muove le braccia , a comando) c’è posto per tutti: anche per un “Cacciari” che, subissato di interruzioni e di insulti, lascia sempre la trasmissione a metà, inseguito dal compassionevole invito a tornare indietro, inserito nel database delle esclamazioni e delle voci già registrate, che partono in automatico. Non fanno eccezione né Fusaro né Veneziani, il primo condannato a fare il succedaneo di Cacciari, il secondo a dare testimonianza di sé dalle catacombe di Facebook, come i primi cristiani scampati alle fauci del leone.
Morale della favola, in sintesi: i partiti politici – sia quelli della falsa destra che quelli della falsa sinistra – hanno verso coloro che si ostinano a pensare la stessa insofferenza che ha un satanasso per l’acqua santa. Ma ne hanno anche verso la “gente” che non è più “popolo” ( una delle più geniali trovate di Berlusconi, commissionatagli da chissà chi), perché intralcia, sporca, farebbe attrito sulle decisioni già prese. La “cinghia di trasmissione” – espressione assai in voga nei dintorni del ’68 – tra la base degli elettori e il vertice degli eletti, si è rotta, sprigionando gli echi di una catastrofe, ma sembra che si siano messi tutti d’accordo nel far finta di non averli sentiti. I partiti non sono più da allora partiti politici. Il sostantivo si è dissociato dall’attributo. E’ rimasto il sostantivo, che continua a foraggiare l’equivoco, giacché sarebbe, oltre ogni ragionevole dubbio, più corretto fargli sottentrare il termine “club”, che odora di the caldo mentre fuori fa freddo, o il termine “circolo”, che si addice a coloro che amano stare seduti ad un tavolo, attorniati da trofei vinti da altri, senza fare assolutamente niente, se va bene. Se si alzano, è peggio.
La “politica” – lo dico io, senza aver spigolato, come tutti i saprofiti di un certo tipo, nell’enciclopedia delle frasi fatte – consiste nel compiere delle scelte importanti, in termini di tempo e di spazio, per contesti assai più ampi di quelle della persona o delle persone a cui fanno capo, ma esistono ormai prove inconfutabili, nella piena disponibilità delle menti libere, che essa – la politica, in questa accezione, l’unica possibile – non abbia ormai da vecchia data niente a che fare con l’attività dei partiti, la quale si risolve nel prendere ordini dai potentati finanziari che hanno assorbito le istituzioni e nell’offrirglisi, dietro lauto compenso, come foglia di fico, per coprire l’osceno spettacolo di una democrazia ridotta ad ombra cinese, a puro ologramma, ad una dimostrazione di trompe l’oeil.
Se ciò non fosse, neppure un’immaginazione, ai limiti del delirio, sarebbe capace di far posto ad una come la Lorenzin che si è fatta, zampettando di casella in casella, quasi tutto l’arco costituzionale, chiaramente senza aver ricevuto per questa sua acrobatica performance, nessuna autorizzazione, se non dall’elettore delle favole raccontate ai bambini, in una delle quali la signora Beatrice, campionessa di salto quadruplo, fa colazione con Berlusconi, va a pranzo con Letta, consuma la merenda con Renzi , e infine va a cena, accarezzata dal lume fioco delle candele, coi notabili del PD.
Se i partiti, assieme all’obbligo, regolarmente disatteso, di onorare gli impegni assunti coi propri elettori, avessero anche quello di “cogitare” – un atto riguardo al quale deve esserci un esplicito divieto nel libretto segreto delle istruzioni ricevuto dai demiurghi della Finanza e dai loro emissari scesi su questa Terra – si farebbero scrupolo di accogliere nelle proprie fila così tanti idioti e di far loro pubblicità attraverso il mezzo televisivo: cosa che invece avviene sempre più spesso, forse perché il distacco protratto dalla realtà non li mette più nelle condizioni di percepire il rumore sordo emesso da una testa vuota, o forse perché gli idioti sanno anche essere utili. Metà e metà.
Sono del parere – io che sono tendenzialmente pessimista – che quel settanta percento di persone rimaste a casa in occasione del più recente test elettorale, abbia mangiato la foglia: quel modo di leggere lo spartito delle cronache e della Storia che prescinde dalla compulsione dei saggi, che è tutto istinto, il migliore.
Alla prossima volta. Non ho finito.
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