‘J’aime la légéreté des choses, des actes, de la vie. Je n’aime pas la légéreté des étres’. Così scrive Robert Brasillach. M’è tornata a mente una pigra passeggiata per la via principale d’una cittadina del Reggino in compagnia del farmacista. Da studenti ci si era conosciuti nell’aprile del ’68, in quel ‘famoso’ e reso nefasto dalle cronache giudiziarie, viaggio in Grecia. Si camminava lenti, sotto il sole d’estate mitigato dalla brezza marina, in una giornata tipica del nostro Sud. Con il gesto della mano, la testa gli occhi vigili ad accompagnare non ricordo più quale argomentare, forse intorno ai massimi (minimi) sistemi della politica cialtrona e vile, che allora si pensava – illusi e trasognanti – di poter cambiare. E quest’amico sembrava articolare idee e immagini con voce simile ad un sussurro, un bisbiglio tanto che, affaticato, l’invitai ad usare un bel tono stentoreo. La risposta. ‘Le parole sono pietre’…
Vi sono modi difformi per riconoscere la sconfitta. La guerra del sangue contro l’oro – eterno conflitto tra chi mette in campo il lavoro e chi, al contrario, ne trae profitto. Ad esempio si cita il Comandante Borghese quando riconosceva come, dopo l’8 di settembre del ’43, avesse aderito alla RSI per il modo come s’era usciti dal conflitto con la fuga disonorevole di ‘sciaboletta’ e che quell’atto vile avrebbe avuto peso sul popolo italiano per lunga data. Si viene battuti per strapotere d’armi e di uomini del nemico, per inettitudine di chi ha la direzione e politica e militare, per la ricchezza di materie prime o per gli ideali che animano l’un contro l’altro armati. Ed anche, forse o soprattutto si perde con la guerra delle parole. Come è avvenuto nel ’45. Disfatta che si protrae nel tempo, di cui siamo vittime inermi in questo malo presente. Mi spiegava Ugo Franzolin che con il loro anacronistico modello ’91 si facevano sempre più consapevoli della disparità di forze, di un esercito che avanzava inesorabile, ma anche sempre più consapevoli come, dietro la potenza dell’oro dell’acciaio di mezzi, avanzasse un mondo che avrebbe spazzato via quanto era stato per secoli in modelli di vita di cultura di valori. E di parole (mia madre che, pur nata negli Stati Uniti, era ostile a quel mondo non volle che a scuola studiassimo l’inglese…).
‘Il resto è silenzio’, così si conclude l’Amleto di Shakespeare. E’ questo, dunque, il nostro destino, l’unica alternativa alla pandemia dello spirito? Quel Tempus tacendi che Pound trascrive dalla cappella di Ixotta, Tempio malatestiano a Rimini, in uno dei suoi Pisan Cantos? Parole come pietre. Narra la storia. E’ il 5 dicembre 1746, nel sestriere genovese di Portoria. La città è occupata dalle truppe asburgiche. Alcuni soldati cercano di liberare dal fango le ruote di un cannone. Con tono arrogante vorrebbero imporre ai presenti di dare loro una mano. ‘Che l’inse?’, un ragazzetto afferra una pietra e la scaglia colpendo alla testa un soldato austriaco. E’ l’inizio della rivolta che libererà Genova. Quel ragazzo si chiamava Giovan Battista Perasso, noto con il soprannome di ‘Balilla’… Fierezza e speranza. Parole come pietre, appunto.
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