Il PD, Conte e il seggio alla Camera: cosa loro

 

Il PD, Conte e il seggio alla Camera: cosa loro

Un tempo, quando si votava per eleggere il Parlamento, chi si candidava sapeva a cosa andava incontro: spese (tante), chilometri (tanti), comizi (tanti) e poche, pochissime certezze, soprattutto se il suo non era un nome altisonante. Erano i fantastici anni Sessanta e poco cambiò negli anni Settanta e Ottanta: fare politica e candidarsi alla Camera o al Senato richiedeva sforzi enormi sotto tutti i punti di vista e quelli che non ce la facevano (moltissimi) non solo finivano nel dimenticatoio, ma, spesso, passavano il resto della loro vita a maledire quel tentativo e a pagare i debiti contratti in campagna elettorale.

Arrivò, poi, la Seconda Repubblica e cambiò il sistema elettorale, dal proporzionale a uno strano maggioritario, fino ad arrivare alle cosiddette liste bloccate: i capi dei partiti mettono in lista i prescelti, che saranno eletti in base al numero di voti e al numero di lista. Quindi, se a Firenze, ad esempio, con tot voti entreranno cinque deputati del Pd, i primi cinque in lista saranno eletti e quelli dal sesto in poi esclusi. C’è, sì, anche il gioco dei resti, per recuperare qualcuno, ma riguarda davvero pochi fortunati. Di fatto, in Parlamento entrano, ormai, soltanto i più “fedeli” ai capi. Se, poi, qualcuno si dimette o muore (ipotesi più plausibile delle dimissioni), allora, si torna a votare nel collegio in cui quel deputato è stato eletto: ogni partito candida un suo uomo e si dà vita a una sfida secca. Chi prende più voti vince ed entra (alla Camera o al Senato).

Si tratta di elezioni “suppletive”, le stesse grazie alle quali, quando era ministro dell’Economia, è diventato deputato, nel collegio Roma1, Roberto Gualtieri, neosindaco della Capitale. Gualtieri, però, dopo il voto per il Campidoglio, ha dovuto lasciare il seggio alla Camera, scatenando gli appetiti dei molti senza poltrona. Enrico Letta, segretario del Pd, si era già sistemato, grazie alle suppletive di Siena, e, dunque, ha pensato bene di proporre per il collegio Roma1 l’ex premier Giuseppe Conte, adesso leader del Movimento 5Stelle, ma senza uno stipendio pagato dai cittadini, come si conviene a ogni politico di rispetto.

L’avvocato Conte, però, ha fiutato una trappola – anche perché il solito Carlo Calenda, candidato a tutto, ha detto che, nel caso fosse sceso in campo Conte a Roma1, lui lo avrebbe sfidato – e ha rinunciato subito.

Che c’è di strano, diranno i più? Questa è ordinaria amministrazione. Sì, ordinaria amministrazione di un sistema malato, a cui ormai abbiamo fatto il callo, ma che è la vera causa della disaffezione del popolo per il voto. Si libera un seggio alla Camera e immediatamente si pensa di fare un favore all’alleato politico, regalandogli uno stipendio da nababbo (quello di deputato), pagato dal contribuente. Un tempo, quando la politica era ancora impegno, sudore, fatica, ricerca dell’interesse comune, si pensava, in prima istanza, a un candidato che fosse espressione del territorio.

Oggi no, oggi i seggi parlamentari vengono utilizzati come merce di scambio, senza alcun riguardo per la cosiddetta “politica dal basso”. Adesso, tutto è calato dall’alto: i vertici di partito decidono chi candidare e chi far eleggere. Il Collegio Roma1, ad esempio, è ritenuto “strasicuro” per i candidati del centrosinistra e, dunque, chi verrà scelto (non dal popolo, che non va più a votare, ma da Enrico Letta e compagnia) otterrà, al 99%, l’ambito scranno.

Inutile affannarsi, insomma. Se qualcuno, di qualsiasi partito, avesse in mente di candidarsi nel collegio Roma1 della Camera, per cercare di fare gli interessi dei cittadini di quel comprensorio, rinunci in partenza. Roma1, come Roma2 o Milano3, è cosa loro: di Enrico Letta, Giuseppe Conte, Carlo Calenda, Matteo Renzi e bella gente di questa fatta. Alla faccia della capacità, della competenza e, perché no?, dell’onestà.

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