Arte e moschetto


 

Arte e moschetto

Arte e moschetto

 

Premessa

L’età rispolvera frammenti dal baule, grembiule blu, calzoni corti, banchi di legno neri, buco rammendato ai calzini, maestra unica con alito al caffè, oggi la Storia (che noia!), pagine del sussidiario illustrate, vedere è ricordare, m’affascinava il Risorgimento con le immagini di eroi, barricate, battaglie, chiari il nemico e l’ideale, la Patria, resisteva solo a scuola in quegli anni ‘50.

Il tema è artisti patrioti in armi per l’unità d’Italia, schioppettate e pennelli coi quali hanno testimoniato la strada impervia per cucire un abito comune a una Terra in costume di Arlecchino.

 

Domenico e Gerolamo Induno

 

La primavera carezzava Porta Romana, sbocciavamo i primi fiori dei ciliegi nel parco del Sempione inverando l’antico verso giapponese: “tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”, tali furono i meneghini alzando barricate in strade e vicoli, la miccia corta bruciò veloce, fu insurrezione contra i crucchi di Radetzky. Esplosero le cinque giornate di Milano, 18-22 marzo, mito del Risorgimento, popolo in rivolta (magari adesso!) senza cesoie di ceto, età, genere, simili alle tre giornate parigine del 1830 immortalate da Delacroix in La libertà che guida il popolo.

Tra i barricaderi, la cronaca ricorda i nomi di due pittori, fratelli, mazziniani, Domenico (il maggiore) e Gerolamo Induno, lasciati i pennelli sulla tavolozza, dall’odore d’ olio e trementina passarono a quello della polvere da sparo; Radetzky in retromarcia mollò Milano, la Madunina sventolava il tricolore, era carne il sogno della Lombardia liberata, si correva all’abbraccio col Regno dei Savoia. Re Tentenna fu esitante, povero in tempi, in armi capitolò a Custoza e fu fuitina da Palazzo Brentani, ritirata, a agosto ecco gli austriaci a vendicar lo s’giaffon di marzo.

Svizzera utero dei rifugiati politici, i due fratelli valicarono il confine, standosene rannicchiati, con altri esuli, ad Astano, borghetto del Canton Ticino, aspettando s’acchetasse la furia asburgica contro i ribelli, Domenico mangiava coi ritratti, Gerolamo irrequieto già nel ‘49, raggiunta Firenze, s’arruolò volontario nella legione di Giacomo Medici a difesa della Repubblica Romana. Da purosangue guidò l’assalto a casa Barberini (mura gianicolensi) contro i francesi, infilzato da una ventina di baionettate fu trasportato e risuscitato al Fatebenefrattelli a l’isola tiberina. Da quella carne bucata fiorirà la sua pittura storica, cronaca vissuta dell’epos risorgimentale, drammatico racconto di eventi filtrati dalla facile retorica, dai moti milanesi, alla resistenza romana, fino alla spedizione dei Mille in truppa coi garibaldini.   

Forse era la piccola Nella (sosteneva Tullio Massarani storico e allievo di Domenico) la bambina trasteverina uccisa da una bomba in una stanza, mentre i genitori erano usciti a battersi coi francesi, un episodio vero, vissuto da Gerolamo in quei cruenti scontri, riportato su tela nel 1850 col titolo Trasteverina uccisa da una bomba, l’espose a Brera, fu plauso della critica del tempo.

La pittura del nostro Ottocento è vista, molto a torto, minore nel quadro dei fermenti parigini se paragonata al realismo di Courbet, alla rivoluzione impressionista, al sentiero tortuoso di un olandese malato o di un narciso sperduto nell’Eden di Tahiti o al frinire delle avanguardie.

Domenico e Gerolamo, di formazione accademica, contaminati da Hayez, si misurarono sui ritratti, sulla rievocazione storica cogliendo in parallelo il quotidiano dei tanti umili attori d’ogni giorno e le loro piccole cose, conditi con un velo di mestizia, fu la pittura di genere sprezzata dagli algidi intellettuali soloni kaifisti della critica d’arte.

La Storia non è astrazione, ricostruzione documentale, avulsa dal sentire di uomini e donne, è vita, suscita o spegne entusiasmi, pizzica le corde di emozioni, fedi, affetti, è così che Domenico li descrive ad es. in L’arrivo del bollettino di Villafranca, l’armistizio pose fine alla II guerra d’Indipendenza, la Lombardia al regno sabaudo, il Veneto sotto il tallone asburgico, Napoleone III tradì le aspettative unitarie in quel 6 luglio 1859.  Sconforto, indignazione narrate a fuori d’una trattoria periferica a Milano, il popolo è il ritratto della rabbia e delusione dell’artista.

Ma la Storia è pure cronaca di sentimenti, Hayez l’aveva colta ne Il bacio, Gerolamo la fissa in Triste presentimento (1862) o in La partenza del garibaldino (1860), momenti di trepidazione d’ una fanciulla per l’amato al fronte e d’ una madre, abbraccia il figlio che parte volontario.  La guerra è anche questo, forse soprattutto questo, non solo furia de La battaglia di Magenta (1859), ma a tutto tondo investe l’uomo in ogni sua risvolto. Quella Patria misurava sangue e sentimenti, l’irrazionale del romanticismo pare oggi acqua sorgiva nella landa del nostro modestissimo presente.

 

immagine: Domenico Induno, L’arrivo del bollettino di Villafranca, 1860-1862

 

 

 

 

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