‘La poesia assoluta, la poesia senza fede, la poesia senza speranza, la poesia fatta di parole che vengono messe insieme per affascinare’. Questo senso del poetare, il suo autore entrano nella mia cella al secondo braccio, carcere di Regina Coeli, nel 1972 con la raccolta di versi, titolo Poesie statiche – Statische Gedichte, edite per la prima volta in Germania nel 1948, e frutto di anni di silenzio imposto e impostogli, che egli aveva definito quale ‘emigrazione interna’ (Innere Emigration). All’amico Friedrich Oelze, fra i pochissimi e di cui seppe mantenere discrezione e distanza, annuncia in data 18 novembre 1934 ‘Fuori da tutto; e la R.W. (Reichswehr, l’esercito tedesco) è la forma aristocratica di emigrazione!’. Indossare di nuovo la divisa come medico militare.
Sulla medesima linea di condotta Ernst Juenger, dopo aver pubblicato Sulle scogliere di marmo, e l’ostracismo dettato da Goebbels che vi aveva scorto, non a torto, un atto di accusa verso Hitler riconoscibile nel personaggio del Forestaro. Sto scrivendo di Gottfried Benn. Gli devo, riordinando i suoi libri, i saggi (in gran parte editi dall’Adelphi) e le poesie, anche perché non lo includemmo, Rodolfo ed io, in Inquieto Novecento – molte le assenze, da Berto Ricci al premio Nobel, il norvegese Knut Hamsun, ad esempio. E’ vero che Benn si entusiasmò per il nazismo, simile a fuoco di paglia, e il nazismo lo ricambiò con l’insulto, tramite l’organo ufficiale delle SS Das schwarze Korps, ed espellendolo nel 1938 dal Reichsschrifttumskammer (la Associazione che raccoglieva gli scrittori tedeschi) e proibendo la pubblicazione dei suoi scritti. Eppure fu ‘tentato’ e, come scriveva Claudio Magris (credo di essermi fatto portare Poesie statiche da mia madre al colloquio del martedì proprio dopo aver letto la recensione su non ricordo più quale quotidiano ed averne annotato il commento) ‘Benn è intimamente fascista per il nichilismo della sua concezione esistenziale e per l’antiumanesimo della sua poesia senza fedi e valori’. Giudizio e poco condivisibile e ‘povero’ in sé, pur sempre però riferimento per un recluso ben ingenuo e sprovveduto, un barlume d’altro e da cui prendere frammenti per una barricata ideale, comunque e nonostante tutto.
Pur essendo un ammiratore appassionato e raffinato conoscitore di Goethe, figura di riferimento costante e coinvolto – vivendo i fermenti i più radicali ed inquietanti e visionari del Novecento – come tavolo anatomico ove giace un cadavere tutto piaghe e brulicare di vermi – Benn scruta intende e s’inoltra là dove il solitario di Sils Maria, il padre di Zarathustra ha tracciato il percorso. Nietzsche. E accettando il denudarsi delle idee non più vere e giuste e belle operato in Umano, troppo umano. E, tramite questo disvelarsi, mettere in crisi il principio di verità con le pretese e l’arroganza di dominio della realtà da parte delle forme intellettuali del sapere. Radicale rottura, scrive Benn lapidario: ‘Qual è ora il punto di vista dell’io? Non ne ha nessuno’. E, in prossimità della morte – solo nella finitudine dell’essere il divenire del tempo – egli salva il verso, appunto la sua staticità: ‘Chi fa poesia sta però contro il mondo intero. Contro non significa con inimicizia. Solo un fluido di approfondimento e di assenza di rumore è intorno a lui’. Un flutto ebbro, come dà titolo ad una raccolta di poesie del 1949 (Trunkene Flut): ‘Flutto ebbro, – macchiato di trance e di sogno, – o Assoluto – che mi copre la fronte, – per cui mi cimento, – da cui ho il premio – delle profonde cose – che l’anima sa…’.
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