La carica di Pastrengo

 

La carica di Pastrengo

Quando il nulla è pane quotidiano, il rischio è la tana, il guscio, la ritirata strategica, per assurdo invece a Pastrengo la nostra cavalleria, sotto il fuoco nemico, levò la sciabola dell’irrazionale gettando al galoppo il cuore oltre l’ostacolo. C’è molto bisogno d’attingere a piene mani al nostro Risorgimento, perciò Carica!

 

“Su di un cavallo bianco, avanti a tutti, il Capitano Conte Morelli di Popolo si volge alzando la spada, eccita all’assalto i suoi soldati che si slanciano arditamente alla carica collo sguardo rivolto verso il nemico. Anche il Tenente Cavagna si volge colla spada alzata, incitando i soldati come il suo Capitano”, è il testo-commento del bozzetto del secondo quadro a olio su la Carica dei carabinieri a Pastrengo datato 1884, tra i beni inventariati all’asta del 1899 del pittore-patriota Sebastiano De Albertis morto a Milano nel ‘97. Quella carica di cavalleria, gonfia ancora oggi il petto e piega le lucerne piumate del Corpo dei carabinieri a cavallo nel rievocativo Carosello storico dell’Arma a Piazza di Siena, nell’arcadica Villa Borghese.

Prima guerra d’Indipendenza, dopo le cinque giornate di Milano, la proclamata Repubblica di Venezia, il Regio Esercito di Carlo Alberto, gonfiato a tempo di volontari papalini e napoletani, scende in guerra contro l’Austria, le truppe del Regno di Sardegna, lento pede, attraverseranno la Lombardia, ora sono in Veneto, il gen. Radetzky in ritirata s’è arroccato lungo la linea dell’Adige, a Verona, lasciando una postazione avanzata sulla riva destra del fiume, a Pastrengo appunto.

Il 30 aprile 1848 (il 29 Pio IX se l’era squagliata dall’appoggio al Regno di Sardegna) l’esercito sabaudo aggredì quella testa di ponte nemica ma la resistenza della divisione Wocker fiaccava non di poco l’avanzata piemontese tanto che Carlo Alberto, stizzito, si portò ad personam tra la brigata “Cuneo” e la brigata “Piemonte” con al seguito tre squadroni di carabinieri a cavallo. Superato lo sbandamento iniziale per il fuoco nemico, l’ufficiale Negri di Sanfront ordinò agli “squadroni di guerra” la carica contro gli austriaci, nessun passo indietro dunque, anzi si va all’assalto con esplosione di adrenalina, “il fumo delle narici, lo scalpitio sonoro, la fiamma degli occhi“ dei cavalli, furono un tutt’uno coi cavalieri, respirando insieme irruenza e folle ardimento, anche il Re da di briglia, galoppa contro il nemico, 260 carabinieri sfondano la divisione asburgica e la fanteria, a seguire, farà tutto il resto, dopo ore di combattimenti finalmente è vittoria!

Nel 1880 il pittore milanese Sebastiano De Albertis, amico di Domenico e Gerolamo Induno, rievocò quella battaglia su una grande tela esponendola, né l ‘82, alla Promotrice di Torino, ebbe grande successo anche perché i reduci di quella storica giornata riavvolsero i fili della memoria, l’opera, di grande realismo descrittivo, trasudava storia senza agiografia retorica e fu acquistata da re Umberto I in persona mentre il bozzetto è ancora esposto nel Museo del Risorgimento milanese.

Sebastiano De Albertis, parafrasando don Abbondio, ma chi era costui? Milanese di nascita (1828), ottimo allievo dell’Accademia di Brera, testa bollente di patriota, partecipò coi fratelli Induno alle cinque giornate di Milano, di lì partì volontario per la I guerra d’Indipendenza (da fresco sposo), nella seconda (1859) è a cavallo coi Cacciatori delle Alpi, poi volontario alla spedizione dei Mille e sempre col gen. Garibaldi combatté nella terza guerra d’Indipendenza lassù in Trentino nella vittoriosa battaglia di   Bezzecca.

Da artista fu valente ritrattista, caricaturista satirico, esponente della Scapigliatura milanese, pittore di storia vissuta e di impegno civile, anche lui attratto, in parallelo, da quella pittura di genere, di piccola vita quotidiana, spregiata come minimalista dalla sciccosa critica d’arte.

Il suo capolavoro dicono sia Garibaldi sui Vosgi del 1874, rievocazione dell’ultima impresa militare del generale dei due mondi, s’era in terra di Francia, in Borgogna, a difesa della terza Repubblica transalpina aggredita dalla Prussia (1870-’71), la vittoria di Digione restò l’unico episodio glorioso dei francesi, decisivi furono i garibaldini, sconfitti ed umiliati poi dall’esercito teutonico.

De Albertis, oggi è praticamente ignorato, sepolto, eppure fu pittore cronista del nostro Risorgimento, con pennelli e fucile ci ha tramandato il binomio inscindibile per lui, pensiero-azione, due facce inseparabili del fare sostenuto dal furore di ideali vissuti sempre al galoppo contro tutto e tutti e non solo in quella mitica carica di Pastrengo.

 

 

 

Come la bacchetta di un direttore d’orchestra, la spada alzata del Capitano Morelli di Popolo, che galoppa sul suo cavallo volgendosi verso i suoi, è il punto di attacco e di sintesi di un trascinante crescendo che si trasmette in primo piano a tutto il vorticoso movimento dei cavalli – a lungo studiati dal De Albertis nei numerosi disegni e nella lunga osservazione diretta durante la vita militare – e sembra propagarsi alle altre analoghe scene di reparti all’attacco che si perdono orizzontalmente all’infinito in accenni sempre più sommari. “Di quei cavalli scrisse Giovanni Robustelli nel 1881 in Passeggiate ricreatrici nell’Italia artistica riferendosi al dipinto tratto da questo bozzetto vedi il fumo delle narici, senti lo scalpitio sonoro, incontri la fiamma degli occhi, tocchi il sudore del fianco percosso”. Sullo sfondo, in contrasto con il dinamismo della composizione, risalta il piccolo gruppo del Re ritto sul cavallo bianco mentre osserva la battaglia

 

 

immagine: Sebastiano De Albertis, Carica dei Carabinieri a Pastrengo, 1880.

 

 

 

 

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