I partigiani

 

I partigiani

L’eredità più consistente lasciata agli Italiani dal regime fascista e dalla RSI nello spirare a Dongo, è stata l’ANPI: una holding che consta di 1500 sezioni distribuite su tutto il territorio nazionale, di 17 coordinamenti regionali, di 107 comitati provinciali e di 7 sedi all’estero. Ovviamente –  eccezion fatta per gli iscritti, molti dei quali vengono reclutati tra coloro che si sono limitati a studiare la Storia sul sussidiario e che cadono puntualmente in deliquio non appena sentono profferire certe parole magiche come ‘libertà’, ‘uguaglianza’ e ‘democrazia’ – chi paga é lo Stato, cioé noi, sulla falsariga del canone televisivo che viene addebitato a coloro che non hanno un televisore o – avendolo –   si concedono il lodevole lusso di tenerlo spento.

A  Hiroo Onoda, il soldato giapponese che si era barricato nella giungla per quasi trent’anni perché non sapeva che la guerra era finita, l’ANPI fa un baffo rintorcinato, ma ci sono delle differenze cruciali. Lì c’é la tragedia, intessuta di valori importanti, come onore e patria. Qui, ricorre, come in molti altri aspetti della vita nazionale agghindati sotto forma di farsa, l’ombra furtiva del pataccaro che ti si avvicina sul tratto Roma – Napoli, nel parcheggio dell’autogrill, per rifilarti un rolex d’oro, un’occasione per pochi danari, iamme, ‘mpress ‘mpress.

Di partigiani – tenuto conto del fatto che i più giovani di allora avranno avuto  diciotto anni – ne saranno rimasti vivi non più di due o tre. Per loro, come per tutti quelli che hanno combattuto per qualcosa contro qualcuno, con le armi in pugno, c’é purtroppo l’onta del pannolone, e del compleanno in cui si é costretti a ridere e a soffiare sulle candeline,  senza averne più voglia.

 Sempre che si sia combattuto. Non é affatto scontato. Nella primavera del ’45 spuntarono più partigiani che papaveri. Qualcuno aveva trascorso intere settimane sulle montagne, nel tallonare gli aerei angloamericani che sganciavano pacchetti di  sigarette:  le bombe, invece, erano per gli italiani che erano a casa, gente comune che lavorava, come nella canzone di Celentano.

 Qualcun altro scoprì di sentirsi partigiano, nell’aprire gli occhi in una di quelle mattine. Il vortice degli eventi, scanditi dagli spari e dal sangue, favoriva i rivolgimenti radicali e le conversioni improvvise. Contrariamente a  quanto succedeva nel resto dell’Europa, era finita una guerra e ne cominciava un’altra, in sordina, senza che nessuno l’avesse dichiarata, come cinque anni prima, convocando gli ambasciatori. Ciascuno di coloro che vi presero parte aveva un proprio piano di battaglia, un target personale: il cognato, indisponente, che partecipava sempre ai raduni  indetti dal podesta’, la maestra che lo metteva regolarmente dietro la lavagna. il vicino di casa al quale doveva dei soldi, che aveva dilapidato per andare a puttane.

Guerra civile: é un rivoltante eufemismo, se adoperato per descrivere la situazione creatasi in Italia dopo l’aprile del ’45. E’ civile – per modo di dire – una guerra nella quale si fronteggiano due parti, divise da interessi e da sentimenti atti a generare  violenza, le quali, tuttavia, insistono sullo stesso Stato: purché il confronto avvenga, almeno teoricamente, alla pari, tra soggetti che si equivalgono quanto a capacità di offendere o di difendersi dalle offese dell’altro. Ma la ragazzina di 13 anni trascinata in catene  dai partigiani per le strade di una cittadina del Nord verso il luogo in cui sarà fucilata, non rientra tra i requisiti di una guerra civile, e neppure tra quelli richiesti per definire ‘barbari’ certi riti nei dintorni di Tenochtitlan. 

Non era rimasto nessun fascista in armi  all’indomani di Dongo, e non si poteva più correre dietro agli aeroplani americani per rifornirsi  di sigarette, ma la pericolosa fatiscenza dello Stato italiano, che metteva insieme la doppiezza dei togliatti e la vigliaccheria dei badogli, aprì la strada alla sagra  sanguinosa delle vendette. Una chilometrica teoria di morti ammazzati, la cui unica colpa era stata, quella, di essere stati fascisti, posto che avrebbero potuto essere tutt’altro se Tutt’Altro avesse  governato al posto del PNF durante il ventennio.

 Le stragi, compiute dai partigiani al di fuori del perimetro bellico, e prive perciò di qualsiasi legittimazione, a parte quella morale, che si nega in automatico a tutte le guerre,  s’infilarono nel filtro dell’amnistia concepita dal compagno Togliatti più per sottrarre alla giustizia gli autori di tali crimini che per erigere uno scudo a protezione dei pochi superstiti del regime fascista, e ne uscirono, in parte assumendo il brand della ‘Volante Rossa’, in parte mettendosi al servizio dei titini che infoibavano gli italiani. Il sillogismo aristotelico, che esercita un’irresistibile attrazione sulle menti malate, funzionò più o meno così: se gli abitanti della Venezia Giulia e della Dalmazia fuggono dall’armata yugoslava comandata dal compagno Tito, ciò vuol dire che sono fascisti. Nessuna concessione al nazionalismo che si traveste da patriottismo. E’ del ‘Migliore, del resto,  l’assunzione della cittadinanza sovietica e il ripudio di quella italiana, annunciata nel corso del XVI Congresso del PCUS, del 1930, occasione in cui, dopo aver detto di  non  essere ‘legato all’Italia come alla mia Patria’, aggiungeva, forse sedotto dal suono della balalaika, di ‘sentirsi, come italiano, un miserabile mandolinista e nulla più’.

 Qualche giorno fa, nuotando oziosamente sul web, mi é capitato di notare un tizio che sventolava una bandiera dell’ex Yugoslavia. Era del gruppo, contenuto a Firenze dai blindati della polizia, che voleva impedire alla rappresentanza giovanile dei Fratelli d’Italia di commemorare le vittime delle foibe. L’equazione italiano uguale fascista, che si é manifestata in tutta la sua virulenza nei confronti di Salvini, nell’epoca in cui questi  assolveva alla meno peggio il ruolo di ministro degli Interni, inadeguata per Berlusconi, era stata messa in precedenza da parte per far posto ad  un’altra equazione, molto più  duttile e, quindi, politicamente più efficace: quella stando alla quale l’anticomunismo –  ancorché povero in canna di fatti –  e il  fascismo sono la stessa cosa, quindi via libera    ai pupazzi che girano per le piazze con la testa in giù, allo squadrismo ‘buono’ delle sardine e a quello ‘cattivo’ dei centri sociali, alle minacce di morte rivolte a chiunque, con le azioni e con le intenzioni, ipotechi il primato della vecchia Sinistra che ha traslocato dal rosso vivo delle officine al rosa pallido dei salotti.

Il fatto che la Resistenza sopravviva nella carne tremula  dei reduci, due o tre in tutto, delle reliquie ambulanti, non ha dissuaso  l’ANPI dal continuare ad esistere e al Deep State contaminato dalle elite dal continuare a finanziarla coi soldi nostri: un pò come se io e te (tu che leggi) pretendessimo una sovvenzione perenne per aver organizzato un circolo, di persone che ricordano con piacere le riforme agrarie attuate dai Gracchi o che  hanno parteggiato a scuola per Mario, insofferenti di Silla.

Credo che sia stata largamente e colpevolmente sottovalutata la posizione dell’ANPI all’interno di questo sistema di potere che mobilita in quattro e quattr’otto le proprie truppe per spostarle ovunque abbia l’impressione di essere minacciato;  che attribuisce dei voti alle inclinazioni culturali, stabilendo quali debbano essere annoverate nell’Indice; che non brucia i libri (fanno fumo, producono CO2) ma fa in modo che finiscano, con la fatale puntualità della pallina del flipper, in un buco nero, dove non li troverà mai nessuno; che toglie dalla grande distribuzione i film scomodi, come ‘Porzus’, roba per contrabbandieri, forse su qualche bancarella, da occultare nella piega del giornale come un porno.  

Ricordo molto bene il giorno in cui nella carpetta di colore amaranto, con gli atti da firmare e la posta da visionare, che la segretaria adagiava sulla mia scrivania, all’inizio di ogni giornata, scoprii una lettera inviatami dall’ANPI. Mi si condannava  per aver osato  ospitare nella mia scuola Giorgio Albertazzi e per avergli chiesto di spiegare  ai ragazzi delle terze classi riuniti nell’aula magna cosa sono la recitazione e il Teatro.

Non risposi per evitare che l’Istituto s’incagliasse in un’assurda canizza. Nel caso,  la risposta sarebbe stata che, in punta di diritto e sotto il profilo morale, l’atto di comandare un plotone d’esecuzione nella vesti di un ufficiale della GNR   (sempre ammesso che l’episodio si fosse realmente verificato) per eliminare, in tempo di guerra, un irregolare, accusato di aver sparato contro reparti della RSI,  per quanto  urti la sensibilità di ogni persona normale, era enormemente meno grave  degli omicidi commessi dai partigiani su soggetti innocenti ed inermi, a guerra finita.

Mi é rimasto, come lascito di quell’esperienza – e non solo – il coriaceo convincimento che la STASI, al confronto, fosse un gruppo di boy scout. Loro vigilano, controllano, non gli sfugge nulla. Perciò, in campana!

 

Immagine: https://www.dagospia.com/

 

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