Scuola di Pensiero Forte [119]: l’evoluzione politica dello Stato [12]
Il Novecento non è solo il secolo dei totalitarismi, ma anche quello della trasformazione dello Stato sociale, o welfare state in inglese. Per venire incontro alla crescente modificazione del rapporto fra Stato e cittadini e l’avvento dei diritti
Titmuss[1] ha distinto tra un modello residuale, un modello acquisitivo-performativo e del rendimento industriale e un modello istituzionale redistributivo. Esping-Andersen[2], che ha privilegiato una prospettiva politica, ha proposto una classificazione simmetrica a quella di Titmuss, parlando di modello liberale, modello conservatore corporativo e modello social-democratico. Se si esclude la forma di intervento assistenziale residuale per i casi di indigenza estrema, il finanziamento e la titolarità dei diritti di godimento del “welfare system” si presentano sotto due forme:
1) il finanziamento dipende dai contributi dei lavoratori e delle aziende (modello di origine Bismarckiana)
2) il finanziamento è tratto dal gettito fiscale generale e i benefici vanno a tutti i cittadini e in alcuni casi a tutti gli individui, compresi i non cittadini (modello scandinavo).
Maurizio Ferrera[3] ha sviluppato una quadripartizione che si articola in 2 modelli (occupazionale o universalistico) e due varianti (puro o misto):
– Occupazionale puro: Francia, Belgio, Germania e Austria
– Occupazionale misto: Svizzera, Italia, Olanda e Irlanda
– Universalistico puro: Finlandia, Danimarca, Norvegia e Svezia
– Universalistico misto: Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna
Negli ultimi decenni del ‘900, mentre da un lato la pressione dei movimenti sociali induce a sperare l’estensione su vasta scala del modello universalistico puro, dall’altro esplodono tre fattori di crisi che mettono in discussione l’assetto consolidato del welfare state. Il primo fattore è connesso alla radicale trasformazione dei problemi sociali e dell’emersione di bisogni del tutto nuovi, rispetto a quelli materiali e standardizzati tipici dell’età della prima industrializzazione, il secondo fattore consiste nella progressiva difficoltà economica a far fronte ai costi crescenti del welfare, il terzo fattore, di tipo ideologico, si traduce in un’ondata liberista che muove dal presupposto che una società troppo assistita favorisca il parassitismo sociale e mini i meccanismi di riproduzione della ricchezza. Si sta pervenendo ad una diversa distribuzione dei ruoli che vede il settore pubblico pianificare, cofinanziare e controllare le prestazioni sociali e il terzo settore e/o il mercato, progettare e gestire più flessibilmente le risposte ai bisogni diversificati della popolazione.
Chiaramente, tutto questo ha fatto parte dell’impatto della globalizzazione sulla politica, lo Stato e la cittadinanza, un processo molto lungo e complesso, partito in un certo senso nel dopoguerra con la colonizzazione culturale, e politico-militare, da parte dei Paesi vincitori sui vinti, e con i flussi migratori cominciati a fine Ottocento e interrotti con l’arrivo delle due Grandi Guerre.
I concetti di “politica”, “Stato” e “cittadinanza” sono messi in discussione dal processo di globalizzazione. Per globalizzazione si intende quel processo che comprime le coordinate spazio-tempo mondiali, per effetto dell’apertura di un unico mercato mondiale (con libera circolazione di merci e capitali) e dello sviluppo della tecnologia, specie nel campo delle comunicazioni, sia tradizionali che telematiche. La globalizzazione ha modificato, e in un certo senso nella sua fase terminale sta ancora modificando, le modalità di organizzazione sociale e del lavoro, rivoluzionando i quadri culturali di riferimento, creando stili di vita, gusti e orientamenti ibridi, che invece presi singolarmente avrebbero fornito indizi riguardo identità locali e individuali.
Accanto ma distinto dal processo di globalizzazione, si colloca il globalismo, vera e propria ideologia, processo attraverso il quale si tenta di sostituire il primato dell’azione politica con il dominio del mercato mondiale, affermando sostanzialmente gli imperativi dell’ideologia neoliberista. Mentre l’economia ed il mercato ispirano azioni e comportamenti ad un sostanziale criterio di valorizzazione del capitale, il potere politico trova la sua ragion d’essere in una legittimazione superiore e persegue esplicitamente il fine del bene comune. Il globalismo mina alla radice questo assetto consolidato, rovesciando il rapporto di potere tra politica ed economia a favore di quest’ultima. Potremmo dire, senza nemmeno azzardare un’eccessiva forzatura, che il globalismo si nutre dello stesso liberal-capitalismo che lo ha generato.
Il processo incede e attacca in primo luogo lo Stato. La mobilità dei capitali e dei flussi di comunicazione utilizza sempre di più canali virtuali, che non si lasciano fermare dalle vecchie barriere dei confini nazionali. Il secondo livello di cedimenti di sovranità si deve al ruolo crescente di organismi internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio), che assumono decisioni fondamentali per le sorti economiche e civili di interi Stati, senza avere alcuna legittimazione democratica ed essere sottoposti ad alcun controllo. Molti studiosi denunciano la trasformazione della maggior parte degli Stati del mondo in meri Stati amministrativi, se non in Stati di polizia dediti ad assicurare l’ordine pubblico interno per garantire degli interessi finanziari di piccole oligarchie.
L’ultima osservazione riguarda l’impatto della globalizzazione sulla qualità dei diritti di cittadinanza degli individui nel mondo. Il criterio della valorizzazione capitalistica conduce le imprese, specie le grandi multinazionali, a cercare di insediare le proprie unità produttive in luoghi in cui esse trovano le migliori condizioni in termini di costi salariali minimi, “climi sociali” favorevoli e massima possibilità di ottenere altri vantaggi esterni. I paesi con una maggior tradizione industriale, che subiscono la delocalizzazione delle imprese, si ritrovano con un aumento dei disoccupati e una diminuzione del gettito fiscale; i paesi sottosviluppati possono riuscire a “conquistare” nuovi insediamenti produttivi solo al prezzo di trascurare la tutela dei diritti sociali e sindacali dei propri lavoratori, nonché di accettare trattamenti “di rapina” sulle proprie risorse ambientali.
[1] Cfr. Richard Timtuss, Saggi sul Welfare State, Edizioni Lavoro, Roma 1991.
[2] Cfr. Gøsta Esping-Andersen, The three worlds of welfare capitalism, John Wiley & Sons, Hoboken 1989.
[3] Cfr. Maurizio Ferrera, Valeria Fargion, Matteo Jessoula, Alle radici del Welfare all’italiana, in Collana Storia della Banca d’Italia, Marsilio, Roma 2012.
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