Insalata Russa

 

Insalata Russa

Il bandolo della matassa: è ciò che un mio amico sostiene, con disarmante franchezza, di aver perso nel riflettere su come in Italia viene trattata la guerra in Ucraina.

Succede quando il corpo si confonde con l’ombra, e c’è qualche sfumatura di troppo.

Tutto vero: l’orso russo, messo all’angolo dall’espansione della NATO ad est ha reagito vibrando una poderosa zampata sull’ultimo Paese di quelli che un giorno componevano l’URSS, e ha fatto balenare la minaccia di ricorrere al maglio atomico se il governo di Kiev non fa subito marcia indietro.

E’ anche vero altresì che il principio di autodeterminazione – colonna portante del Diritto internazionale – richiamato da Putin per giustificare l’annessione della Crimea – avvenuta prima con le armi e poi suffragata da un plebiscito – dovrebbe valere anche per l’Ucraina, alla quale, invece, il Cremlino nega il diritto di decidere di confluire nella UE e di passare sotto l’egida della NATO: il divieto, inoltre, é esteso anche alla Finlandia e alla Svezia, Paesi che riceverebbero, stando a Putin, lo stesso trattamento subito dall’Ucraina se uscissero dal loro stato attuale, di sostanziale neutralità, per ‘cominciare ad entrare’ nell’Alleanza Atlantica.

Più del rischio di trovarsi con i missili della NATO sulla porta di casa (quando gli arsenali ne contengono migliaia capaci di centrare piccoli bersagli posti a distanze siderali dal luogo di lancio) ciò che può aver indotto Putin ad attaccare è lo stillicidio delle vessazioni subite dalla minoranza russofona, non solo nella martoriata area del Donbass, dove si contano 14 mila morti nell’ultimo decennio, ma in tutta l’Ucraina, a far data dal rogo di Odessa, del maggio 2014, in cui morirono una quarantina di persone, per mano di un gruppo di neonazisti: la miccia, cioè, sarebbe molto più lunga di quella fornita a Putin dalla presunta accelerazione di trattative segrete tra Zelensky e gli amici amerikani per formalizzare il passaggio dell’Ucraina sotto le insegne della NATO.

Tutto vero: gli Americani non hanno mai disdegnato la forza, spesso affidandosi a terzi, nella presunzione di poter tenere sotto controllo le dinamiche del quadro internazionale. Intervenuti, sotto Reagan, contro Grenada, e ancor prima in Indocina, sotto il democratico Kennedy. Poi in Iraq, in Siria, in Libia, in Serbia: un’enciclopedia di misfatti. Ma normalmente gli USA agiscono di soppiatto comprando e vendendo, come si usa fare al mercato, che è il loro habitat elettivo. L’idea tuttavia che gli interessi della Russia di Putin siano in qualche misura condizionati dalle visioni di Dugin – di una sola Europa, da Lisbona a Vladivostok – che torna ad irradiare la propria smagliante potenza sul resto del mondo – è un’idea che bisogna confinare in fondo al cassetto, là dove gli oggetti non vengono abbandonati, ma tenuti gelosamente in serbo per chissà quando, a disposizione di chissà chi.

La logica delle grandi potenze – e la Russia ancora lo è, nonostante il perspicuo dimagrimento accusato nel ’91 – è lastricata di calcoli che non si spingono mai, per ovvi motivi, oltre il medio termine, e hanno quindi ben poco da spartire con le ‘visioni’.

La parentela ideologica che caratterizzava il rapporto tra Cina e URSS nel ’68 non impedì ai cinesi di Mao di scagliare un’intera divisione di fanteria sull’isolotto di Damanskji nel fiume Ussuri per cercare di strapparlo ai sovietici, e non li trattenne, nel decennio compreso tra il 1978 e il 1987, sotto Deng, dal muovere guerra al Vietnam, che si era appena unificato dopo la sconfitta degli yankees, perché aveva rovesciato in Cambogia il regime a loro amico dei Khmer Rossi e si atteggiava a primattore di rango regionale disturbando le pretese egemoniche avanzate da Pechino su tutto il Sud-Est asiatico.

L’affare ucraino – che nel momento in cui questo pezzo arriva su Facebook potrebbe aver preso una piega del tutto estranea ai commenti discordanti che ha suscitato – giustifica l’imbarazzo di chi, nel tentare di rifuggire dai luoghi comuni (ogni piccola o grande comunità cementata dalle stesse opinioni, ne custodisce qualcuno), vorrebbe far premio solo ed esclusivamente sui dati di fatto.

Il problema è che lo scarto tra ciò che è vero e ciò che è falso viene puntualmente colmato, come in un’inesorabile risacca, dalla propaganda o dal retropensiero che si è costituito sulla base di esperienze pregresse: quelle per le quali gli eventi si sviluppano ricalcando uno schema o risentono, molto più banalmente, delle nostre personali aspettative in ordine al modo in cui s’intrecciano tra di loro.

L’inizio, documentato, di questo tragico pasticciaccio è la carneficina, tra il 18 e il 20 febbraio del 2014, a Kiev, tra i manifestanti – una moltitudine immensa – che chiedono al presidente filo-russo Janukovyc di affrettare le pratiche per l’ingresso dell’Ucraina nell’UE. Si contano più di cento morti a causa dei colpi sparati nel mucchio da cecchini appostati nei punti strategici della Capitale. Quasi contemporaneamente truppe russe entrano a Sebastopoli occupando la Crimea, che diventa così, in attesa di un formale riconoscimento da parte degli organismi internazionali, il primo sbocco russo nel Mediterraneo, il bacino sul quale Mosca si affaccia solo per aver preso in prestito gratuito il porto siriano di Tartus. I due fatti, nel collocarsi l’uno a rimorchio dell’altro, proverebbero che all’origine dell’invasione dell’Ucraina c’è l’impellente bisogno dei russi di ‘respirare’ allargando, sul versante europeo, le maglie del reticolato che la UE e la NATO le hanno costruito intorno straripando ad oriente. ‘Proverebbero’: il condizionale, piuttosto che l’indicativo, è la soglia che separa due interpretazioni divergenti dell’atteggiamento russo. Per la prima – quella dei circoli occidentali – Putin ha giocato d’azzardo credendo di offrire uno sfogo alle smanie espansionistiche di una parte del ‘sistema’ russo, quello formato dalle oligarchie e dalla casta dei militari, frustrata dai rivolgimenti politici degli ultimi cinquant’anni. Per la seconda – che affiora qui in Italia, curiosamente sia nell’ANPI che nel variegato territorio della Destra Sociale – Putin si sta difendendo da un’aggressione, e il ruggito è quello del leone ferito, che lotta, messo all’angolo, per non farsi sommergere dalle iene.

A me – che in passato mi sono spesso occupato sia di trame che di politica internazionale – farebbe comodo sapere come molti esperti del ramo siano riusciti a sceverare il grano dei fatti dal loglio delle impressioni e cosa li metta nelle condizioni di erigere davanti a sé delle certezze dogmatiche.

Nell’arretrare di quasi dieci anni rispetto alle terribili convulsioni di questi giorni, focalizzerei sugli spari del Majdan. Ce ne sono voluti ben cinquanta, e passa, perché il massacro nella foresta di Katyn, ordinato nel 1940 da Stalin per liberarsi dell’intellighenzia militare polacca e per non averla come controparte, a guerra finita, nel processo di totale assimilazione della Polonia al regime sovietico, fosse derubricato dall’elenco dei crimini nazisti: la verità rimase a lungo nascosta sotto un cumulo di testimonianze truccate ma il suo occultamento fu favorito dal più banale degli espedienti adottato dal servizi segreti russi per trasferire la responsabilità della strage ai tedeschi: quello di aver eliminato tutti gli ufficiali polacchi col colpo alla nuca esploso con una pistola, la Walther PPK, che era in dotazione alla Wehrmacht.

Della strage di Portella della Ginestra, compiuta sui braccianti che festeggiavano il Primo Maggio nel ’47, con una mitragliatrice appostata sulla sommità di un declivio, non esistono documenti. La logica suggerisce che l’iniziativa fosse stata presa dai possidenti siciliani per intimidire il movimento sindacale e per distoglierlo dalla volontà di combattere il latifondo, e che quindi il bandito Giuliano, indicato come esecutore dell’imboscata, fosse solo il paravento di una concatenazione di interessi che potevano coincidere con la parte più retriva dello Scudo Crociato o, addirittura, con quello americano che consisteva nel fomentare l’insicurezza e il disordine in Sicilia, eventualmente per sottrarla al controllo del Governo italiano, ‘inquinato’ dalla presenza dei comunisti.

Questo inciso, in fondo, per dire che la logica degli eventi, anche sullo scenario internazionale, segue spesso delle traiettorie sghembe e che il massacro di Majdan, coi cecchini appollaiati sui tetti degli edifici intorno alla piazza che sparano sulla folla mentre inveisce verso Janukovjc, reo di essersi rimangiato la decisione di aderire alla UE, rappresenta il classico esempio di come una ‘provocazione’, che è stata scambiata per un incidente ‘fisiologico’ (dei colpi partiti per errore dalle armi dei poliziotti colti dal panico) o che è stata ampiamente sottovalutata, determini effetti dirompenti anche a lunga scadenza.

Sarebbe comunque il caso, – vista l’enorme pervasività dell’affare ucraino – di dedicare alcune righe alla posizione dell’Italia, che sembra potersi riassumere nell’espressione, tra l’attonito e l’assente, del ministro Di Maio. Lo spazio, tiranno, mi consente solo di osservare che i vasi di coccio stanno bene in mezzo ai vasi di ferro, ne ricevono protezione: a patto che gli uni e gli altri rimangano immobili. Ma qui balla tutto.

 

 

 

Immagine: https://aresdifesa.it/

 

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