Hic et nunc


 

Hic et nunc

Talvolta succede che, nello strimpellare oziosamente la chitarra, uno realizzi quasi per caso un accordo del tutto nuovo: un po’ come quando scrivi un post e scopri, a cose fatte, di aver lumeggiato un aspetto della realtà che prima sfuggiva e, quindi, non c’era. Ad esempio, che la vecchia Sinistra, consegnatasi con le braccia alzate, alle élite, si fosse specializzata nel variare surrettiziamente la destinazione d’uso di molte figure all’interno della società civile (e ciò allo scopo di farle perdere, a cascata, ogni punto di riferimento e  di renderla sempre più omogenea ai disegni criminali del NWO) è un dato di fatto che traspare da come si sono trasformate,  sotto questo cielo, le mansioni dell’insegnante, pagato per intrattenere e diffidato dall’insegnare; del giudice, che tresca invece di amministrare la giustizia; del ladro che  ha più diritti del derubato; del soldato che non deve pensare alla guerra per non fare peccato: dell’elettore che non vota, ma aspetta, come Godot, o come Drogo, il lento tramestio di tanti inutili esserini nel deserto dei Tartari.

Credo che la formula dell”uno vale uno”, buttata lì da Grillo e dai suoi discepoli, alla stregua di uno slogan, di quelli che creano nella mente solo una debole increspatura, non sia stata minimamente avvertita per l’enorme carica eversiva che è capace di sprigionare: l’avallo della mediocrità (per un Paese che deve stemperarsi in un organismo più grande, dominato da fameliche oligarchie e che deve dimenticarsi quanto più rapidamente è possibile di tutto ciò che del proprio passato ha qualche menoma attinenza con la sua cultura e con le sue tradizioni); la politica, intesa come eterno compromesso tra le urgenze materiali e la Città di Platone, ridotta nelle miserabili angustie di un ‘conticino’  e degli affari correnti, che strozzano ogni slancio creativo; delle Istituzioni che fanno l’eco perché qualcun altro ha deciso per loro, a Washington o a Bruxelles, dopo aver srotolato e letto i pizzini criptati dell’Alta Banca.

Nel deprecare l’abissale inadeguatezza di Di Maio – un povero diavolo dalle occhiaie nere che fa le cose migliori quando non fa assolutamente niente, una barzelletta ambulante – si perde quasi sempre l’occasione per osservare che si tratta di un’anomalia necessaria. Ai poteri sovrannazionali che paventano come la peste l’idea che l’Italia ritorni a sviluppare uno straccio di politica estera, pur nei limiti imposti dalla sua appartenenza alla NATO e della sua attuale condizione, di trasportino, con gatto annesso, nella foto di gruppo dell’Occidente. E ai poteri (relativamente) forti del Paese che, con Di Maio al Governo e con parecchi altri, del calibro di Speranza e della Bellanova, hanno buon gioco nel dimostrare di non volersi assolutamente discostare da un programma già bell’e fatto, il Grande Reset, nell’ambito del quale l’Italia – proiettata al centro del Mediterraneo (che si é ‘allargato’, come amano dire gli esperti di Geopolitica) e prona lungo la bisettrice che separa l’Europa latina dall’altro mondo, popolato da slavi ed islamici, deve (inevitabile, perentorio) rassegnarsi a fare disciplinatamente da cavia per gli esperimenti più spinti: durante la ‘Guerra Fredda’, a cui si è data una pericolosa riscaldata, col terrorismo, e, adesso, con tutta una serie di operazioni da fantascienza che vanno dalla cancel culture, praticata col contagocce – una stilla di veleno prima di ogni pasto principale – alla predisposizione del meticciato attraverso la riduzione calcolata del numero dei nativi, equiparati agli Indiani d’America dell’800, e alla loro parziale sostituzione da parte del Settimo Cavalleria che nel frattempo è diventato un esercito sterminato.

È dai tempi di Mattei, il padre padrone dell’ENI, e da quelli di Craxi, che la Farnesina s’è fermata. Encefalogramma piatto. Il ricordo di quando ci si sfregava con gli arabi per cercare di placare la nostra sete energetica, anche a costo di procurarci (è il caso dell’idillio sotterraneo con l’FLN algerino) le maledizioni di nostri amici/nemici dell’orticello europeo – è sbiadito e giallo, come la vecchia foto di un mio antenato, non so chi sia, trovata facendo spazio in cantina.

I due cerchi di Sigonella e  la proclività a costruirsi intorno a sé un dominio, che fosse quanto meno delle stesse dimensioni del bacino mediterraneo, e che dissuadesse i Turchi dal coltivare altra ambizione che quella di essere i primi al mondo nel commercio dei fichi secchi, sono evaporati all’improvviso con la conquista del potere da parte della falsa Sinistra asservita agli interessi dello zio Sam, col risultato che ora la politica estera italiana (alla quale si allega una dottrina militare contaminata da trucido pacifismo) può solo, nella migliore delle ipotesi, ridursi ad un mero esercizio di copia/incolla delle determinazioni assunte dai capibastone della UE e della NATO, quando, nella peggiore, per un eccesso di ‘conformismo’ (vedi Di Maio vs Putin), non si sviluppi per proprio conto, al di fuori di tale circuito, commettendo degli errori esiziali.

Il dispetto per lo stato di abbandono in cui versa l’Italia, sotto le grinfie della mafia internazionale, elimina in molti osservatori la naturale inclinazione a parteggiare per il soggetto più debole (l’Ucraina, attaccata dai Russi) perché gli attribuiscono la colpa di essersi fatta circuire dai Servizi occidentali per entrare nella NATO e per consentirle di progredire, con una mossa decisiva, nell’accerchiamento della Russia. Ciò che colpisce di questa storia é che le simpatie verso Putin sono, per una parte, tributarie delle forti analogie che la situazione italiana presenta con quella dell’Ucraina (entrambe sottomesse agli ingegneri del NWO, e in ciascuno dei due casi è un comico che ha fatto la differenza), e per l’altra parte, dalla notevole impressione suscitata in certi ambienti dalle teorie di Aleksandr Dugin, l’ideologo secondo il quale la missione della  Russia sarebbe quella di installare sulla Terra la Terza Roma e di bonificare l’Occidente dalla putredine – politica e  culturale – che lo sta annientando.

Il sospetto che lo zar si disinteressi degli affari nostri purché non interferiscano coi suoi e che Dugin offra a Putin la stessa legittimazione a priori che Virgilio, con l’Eneide, offriva all’imperialismo e alle legioni di Augusto, non attecchisce. C’è, peraltro, anche un’inesplicabile ostinazione nell’eludere alcune domande, quelle più ovvie, quelle che contano, al di là delle infatuazioni che fanno bella la Storia anche quando fa schifo. Una, ad esempio, è se nel prendersi la Crimea, per garantire un alloggio più sicuro alla propria flotta nel Mar Nero, Putin non abbia agito come Stalin, nel novembre ’39, contro la Finlandia che si rifiutava di cedergli pezzi della Carelia, quelli che gli mancavano per fronteggiare con maggiore efficacia un’eventuale penetrazione da quel lato da parte dei tedeschi. L’altra, è se, togliendo i massacri provocati nel Donbass da agenti molto presumibilmente sguinzagliati da Kiev e da Mosca, la ragione addotta dal Cremlino per tentare di strappare il Donbass all’Ucraina, che cioè si tratta di territori popolati da russofoni, non assomigli maledettamente a quella accampata da Hitler per impadronirsi dell’Austria e dei Sudeti, poco prima che il fuoco, alimentato da un Chamberlain coglione, divampasse in tutta l’Europa.

Atteso che la Storia ama ripetersi, ogni volta con un adattamento diverso, e con dei costumi diversi, non resisto alla tentazione di sostenere che, per la gravità dei problemi che abbiamo in casa nostra e per la vastità dei danni subiti  dopo la comparsa sul palcoscenico di un altro comico, Giuseppe Grillo, il padre di tutti gli Zalensky, sarebbe più logico che le energie mentali che si stanno dilapidando per far passare il concetto che l’Ucraina è (o era) un Paese nazista, fossero impiegate per abbattere quel mostro, peggiore del nazismo,  che imperversa  da noi. Ma bisogna fare presto. Ho un’età, e mi dispiacerebbe perdermi come finisce.

 

Immagine: www.today.it

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