L’Ucraina e i capponi di Renzo

 

L’Ucraina e i capponi di Renzo

L’incubo peggiore è quello di trovarmi sotto un cielo desolatamente azzurro in mezzo ad un campo di girasoli. L’orizzonte è piatto (se non fosse che voglio tenere alta la suspence, direi che è come la lastra di marmo di un obitorio), e devo scegliere, se andare di qua o di là, ma non c’è alcun elemento – un uccello, una casa, un albero, solo il tagliente frinito di una cicala – che mi aiuti a prendere partito: ho la netta sensazione che il campo di girasoli finisca dove ne comincia un altro, e un altro ancora, che non ne uscirò più. Ecco spiegata l’Ucraina: non è, a dispetto di tutte le dotte spiegazioni di giorni nostri, che fosse tanto difficile. Nel secolo scorso – ieri l’altro – un certo Stepan Bandera, figlio di questa terra di confine senza confini, voglioso di vendicarla della fame (l’holodomor) e delle esecuzioni di massa che le erano state comminate dal “compagno” Stalin, intorno al 1933, perché recalcitrava all’idea di piegarsi alla collettivizzazione delle campagne, accettò, nel ’41, di unirsi ai Tedeschi che avevano attaccato l’Unione Sovietica, per aiutarli a sconfiggere il bolscevismo, ma pagò dazio due volte, come nella tragica anteprima del film “Non ci resta che piangere”, perché finì ripetutamente in carcere sotto i Tedeschi che lo accusavano di doppiezza per essersi applicato nel fomentare il nazionalismo ucraino contro di loro, e fu ‘giustiziato’ nel ’59, a quattordici anni dalla conclusione della guerra, da un agente del KGB che lo aspettava sul pianerottolo di casa sua, a Monaco di Baviera, con una pistola caricata con delle strane palle al cianuro: dipende dall’inquadratura scelta per l’istantanea, se di fronte, sei un eroe; se di tre quarti, fai schifo.  

Sul foglio matricolare di Bandera qualcuno ha scritto che, agli ordini dei Tedeschi, aveva agito con efferatezza nei confronti di Polacchi ed Ebrei, e la cosa stride col fatto che l’Ucraina – dov’è stanziata da secoli un’importante comunità ebraica – pullula di statue erette in suo onore, e lo stesso suo presidente, ebreo – andato al potere coi soldi di un altro ebreo, George Soros – viene additato come uno dei principali ispiratori delle milizie che operano da dieci anni nel Donbass all’ombra della croce uncinata. Noto pure una  certa inconseguenza tra il feroce entusiasmo con cui Bruxelles lavora per l’ingresso dell’ Ucraina nell’Unione Europea e quello con cui si ostina a comprimere con le leggi e col ricatto finanziario ogni menoma forma di discrezionalità nei Paesi che ne fanno parte: e questo perché il genoma politico degli Stati che hanno maggiormente patito le turbolenze del quadro internazionale, almeno a far data dagli albori del secolo scorso in poi (come la stessa Ungheria, schiacciata sotto i cingoli dell’Armata Rossa nel ’56, e risucchiata ancor prima nel mulinello del Secondo e del Terzo Reich, o come, appunto, l’Ucraina, sballottata continuamente tra due poli, quello germanico e quello slavo) presenta un tasso elevato di nazionalismo, quanto ne serve per sopravvivere in condizioni difficili, e, dunque, non si capisce come l’UE, che avrebbe dovuto localizzarsi nella vecchia Europa, possa (Orban docet), allargandosi verso Est, pretendere di esercitare un qualche ascendente su popoli, reduci da altre storie, che non hanno più alcuna intenzione di adattarsi al guinzaglio corto e che saranno ben poco tolleranti nei riguardi di chi, oltre a non avere alcuna considerazione per l’identità degli affiliati, li perseguita legiferando sul calibro delle zucchine e sulle cose da niente che nascondono come una coltre di fuliggine il profilo arcuato dell’orizzonte..

Da qui, allora, il legittimo sospetto, suffragato da diverse evidenze, che in realtà l’UE sia solo una propaggine politica (il copia/incolla dei riti e delle liturgie di una falsa democrazia) degli States, e che la NATO ne sia l’espressione militare rivolta contro la Russia: la certezza, inoltre, che a forza di spostare i confini delle proprie spettanze sempre più ad oriente, dove, per gli interessi che vi si fronteggiano, unire i popoli è quasi più difficile che dividerli (tutto questo per fare velo alla penetrazione della NATO), l’Unione Europea finirà per perdere la sua “ratio” iniziale – quella vagheggiata illo tempore dai vari Schumann e dai vari De Gasperi – e dovrà accontentarsi di ritornare dentro di sé, in un condominio minore, a patto che rinunci allo stile ragionieristico della sua “governance” e si ritrovi nella potenza ancora fumante del suo passato.

Più a sud-est, ai piedi della catena del Caucaso, la Georgia, rilasciata come Stato indipendente dalla decomposizione dell’URSS, è il sosia spiccicato dell’Ucraina. Due distretti russofoni, l’Abkhazia e l’Ossezia, che tirano verso la Russia, mentre il resto del Paese è ipnotizzato dalle luci dell’Occidente. Qui, a differenza dell’Ucraina, dove le truppe russe sono entrate di recente per giustificare con una vittoria militare l’acquisizione delle ricche riserve minerarie del Donbass e per collegarle agli scali della Crimea, le armate di Putin il Terribile si sono insediate stabilmente sin dal 2008 con la scusa di doversi interporre tra i separatisti e il regime di Tbilisi instaurato da una pletora di oligarchi. Se si prescinde dal polistirolo espanso di tutte le storie che sono state raccontate sull’apoteosi di Zelensky e sulle congiure di palazzo che decidono chi debba prendere o lasciare il potere in Georgia, ciò che rimane, a dispetto delle preclusioni ideologiche, degli innamoramenti per partito preso, e di tante chiacchiere a vuoto, è l’argenteria dell’800 che torna ad essere ferro, come quando le tensioni nell’orticello dei Balcani erano provocate dallo sfregamento, molto al di sotto della superficie visibile, di due zolle tettoniche che coincidevano con la sfera d’influenza tedesca e col mondo slavo: solo che adesso ai protagonisti di allora, declassati a comparse, si sono sostituiti gli USA e la Russia, mentre la Cina continua a dipanare la Via della Seta, quella che prelude alla conquista dei mercati mondiali, ostentando verso le dispute che si accendono sul bordo delle loro spettanze strategiche, un’ingannevole indifferenza.

Ciò premesso – al di là del facile sospetto che a sventrare la donna incinta di Bucha sia stata la stessa persona che, in un contesto diverso, le avrebbe ceduto il posto a sedere sulla metrò e al di là dell’irrefutabile frase fatta con cui si afferma che la guerra è la rivincita dell’amigdala sul cervello – vien fatto di pensare che quella in corso non sia una guerra qualsiasi, ma abbia il potere, fra i tanti che non le vengono riconosciuti, di smascherare le penose contraddizioni in cui si dibattono molti soggetti, a noi affini, nel fare professione di “putinismo”.

 Intanto va detto, solo per tagliar corto su altre questioni, per le quali non basterebbero mille pagine, che

1) l’emulo di Grillo, Zelensky, si è avvalso, per prendersi l’Ucraina, più o meno degli stessi mezzi adottati da Putin per divenire lo zar di tutte le Russie (una singolare altalena con l’amico del cuore Medvedev, come Stanlio e Ollio, ma la colonna sonora è quella di un film noir) o dalla cricca che spadroneggia in Italia da più di trent’anni, collocando, senza essere mai stata quotata nelle elezioni, gli sciacquini della “Golden’ Sachs” a palazzo Ghigi e un reduce di Mani Pulite somigliante a San Pietro nel palazzo della Consulta, a due passi dal Quirinale perché stiano, lui e l’altro che l’ha voluto lì, vicini vicini;

2) che la famigerata brigata “Azov”, alla quale si attribuisce un’innata brutalità, non è diversa dai Goumiers schierati nel ’44 nell’Italia centrale dal generale Juin, né dai  “berretti verdi” americani che compirono il massacro di My Lai nel Vietnam, né dai Gurka impiegati dal Regno Unito nella guerra delle Falkland, né dal “Wagner Group”, l’unità composta da mercenari messisi al servizio del Cremlino, il cui fondatore era un fervente ammiratore di Hitler, della serie, risalente ai primordi del genere umano, che la guerra, purtroppo, è guerra;

3) che Putin ha attaccato e invaso l’Ucraina dichiarando di volerle impedire di aderire alla NATO (cosa che si sarebbe guardata bene dal fare qualora ci fosse stata già dentro) e ha commesso il grave errore di minacciare la Svezia e la Finlandia – sulla falsariga di analoga iniziativa presa a cavallo tra il ’39 e il ’40 sotto Stalin – per dissuaderle dall’emulare l’Ucraina, con l’unico risultato, precedentemente annunciato in un mio articolo di due settimane fa, che per evitare di subirne la stessa sorte, Helsinki e Stoccolma cercheranno di sveltire le pratiche per la loro ammissione nell’Alleanza Atlantica, fornendo agli analisti il più classico degli esempi di cosa sia l’eterogenesi dei fini nel rapporto fra Stati;

4) che l’essere stanchi di essere ingabbiati nel Pensiero Unico o l’aver creduto alla favola della Terza Roma che guarirà l’Occidente dalle patologie morali e culturali che adesso lo affliggono, stanno contribuendo, limitatamente a certi settori dell’opinione pubblica, a trasformarci in tanti piccoli Chamberlain e a farci ignorare che il bombardamento di Belgrado del ’99, da parte della NATO, era solo il primo atto di una tragedia di cui l’attacco all’Ucraina è il secondo: l’Europa presa in mezzo , ancor peggio che durante il lungo periodo della Guerra Fredda, nell’urto tra USA e Russia, e i capponi di Renzo – le due curve, divise su come giudicare l’azzardo di Putin – “delle povere bestie, così legate e tenute per le zampe…che s’ingegna(va)no a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.”

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