Quando la scrittura sa elevarsi oltre la misura del tempo quale finitudine della carne e delle ossa e del sangue citavo l’Iliade dove si svolge l’incontro e il dialogo tra Ettore, pronto a guidare una sortita di soldati oltre le Porte Scee, e Andromaca, moglie dolente con il figlio bambino Astianatte, quel contrasto alto e nobile tra il dovere del cittadino e il sentimento privato. E ricordavo la potenza dei versi dell’Infinito e la pochezza di quell’ermo colle e lo stesso Leopardi con le sue fragilità. ‘Solo la bellezza ci salverà’ e a contrasto la marcescenza della carne. Eppure traggo dal diario del pittore giapponese caro a Van Gogh, Katsushika Hokusai (famosa l’onda impetuosa che sembra tutto voler travolgere) una misura del tempo che s’approssima a una visione simile a identità (o è già essa stessa) con l’Assoluto: ‘Dall’età di sei anni avevo la mania di disegnare la forma delle cose. Quando ne ebbi cinquanta, avevo pubblicato una infinità di disegni; ma tutto ciò che ho prodotto prima dell’età di settant’anni non è degno di considerazione. A settantatré anni ho imparato qualcosa circa la struttura reale della natura, degli animali, delle piante, degli uccelli, dei pesci e degli insetti. Di conseguenza, a ottant’anni, avrò fatto ancora altri progressi; a novanta potrò penetrare il mistero delle cose; a cento certamente avrò raggiunto una fase stupenda; e quando ne avrò centodieci tutto ciò che farò, sia un punto che una linea, sarà vivo. Scritto all’età di settantacinque anni da me, già Hokusai, oggi Gwakio Rojin, il vecchio che va pazzo per la pittura.
Quando estendiamo il tempo su una retta infinita cosa resta se non dei frammenti, passeri che si appoggiano a fili elettrici tanto prossimi a note sul pentagramma, che sono le nostre esistenze hic et nunc… ed è già tanto e forse troppo. Così li annotava Ezra Pound davanti alla sua tenda di prigioniero, là nei pressi di Pisa. Dei versi… E la domanda, la cui risposta è rimasta inevasa o tarda a venire su quel raccontare, il romanzo, che si distacca dal suo autore in un conflitto tra ciò che permane (i greci e il significato originario della poesia) e la mano e la mente mortali che pure l’hanno composto. Preda di divinità gioiose e crudeli, ‘cani di paglia’ come nella tradizione cinese, per essere a loro sacrificati nella nientità del tempo ostile e caduco. Eppure i Titani – ed Ernst Juenger attendeva l’epoca del loro ritorno – si sono eretti fra le rovine, stupido orgoglio di sfida, e si sono detti che era arrivato il momento di scalare il cielo e di guardare le deità e di ridere loro in faccia e prenderli a calci per sostituirsi in un nuovo regno. Quanta nobiltà nel loro rovinio! E la domanda se si videro ricacciare da dei gelosi del proprio potere o, stupiti e atterriti, perché ebbero avanti a loro la visione del cielo nudo e vuoto. La parola…