E’ norma. Succede sempre. Quando la caldaia della propaganda erogata dal ‘Deep State’ comincia ad ansimare, qualcuno, inevitabilmente, ci butta dentro delle badilate di carbone, e la locomotiva, sfiatata, riprende a fare ciouf ciouf. Ma il colore nero, che é quello dello Stato profondo, il sostrato di tutte le false democrazie, che ogni tanto si solleva per ingoiare e per digerire coloro che le minacciano, é molto più nero, con tutte le mafie e le massonerie che lo compongono, di quello con cui si suole riassumere l’iconografia stinta del fascismo che si sparpagliava per Roma il 27 ottobre del ’22 o che si radunava puntualmente nelle piazze per ottemperare al precetto del sabato.
A dispetto di questa ineccepibile verità, ogni qual volta é scoppiata una bomba si sono tirati in ballo i ‘fascisti’, come la ‘matta’ nel gioco del sette e mezzo, la sezione aurea di tutti i misteri che debbono rimanere tali per sempre: anche per quanti, il 2 agosto di ogni anno, si danno convegno davanti alla stazione di Bologna per chiedere che venga fatta luce su quella strage, che deve essere necessariamente ‘fascista’: tassativo, perché se non é ‘fascista’, allora cos’é? Tu capisci, settant’anni e passa di propaganda farlocca che vanno in fumo, il velo sollevato dalla Grande Menzogna, parola d’ordine ‘non si può’.
Ho trascorso quasi una vita a scartabellare negli archivi e a domandarmi ‘cui prodest’ – l’unico insegnamento di cui ho fatto tesoro, come giornalista, militando a sinistra – e i documenti, concimati dalla logica, mi dicono 1) che l’esplosione della stazione di Bologna e la tragedia di Ustica, avvenuta poco prima, il 27 giugno, sono correlati; 2) che la cornice entro la quale si collocano i due episodi é quella delle trattative che si stavano svolgendo tra Dom Mintoff e il Governo italiano per sottrarre Malta al controllo di Gheddafi e, quindi, per impedire che l’isola potesse offrire un facile ricetto alla flotta sovietica nel Mediterraneo; 3) che, proprio quella mattina, esattamente alla stessa ora in cui fu fatta esplodere la bomba nella sala d’aspetto della stazione di Bologna, il sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Zamberletti apponeva, a La Valletta, la propria firma sul documento che sanciva l’impegno italiano a preservare, pleonasticamente dalle mire libiche, la neutralità di Malta, e che 4) anche l’abbattimento del DC9 dell’Itavia (bomba o missile?) , avvenuto nel periodo di maggior tensione nei rapporti tra Roma e Tripoli, deve ascriversi ad un’iniziativa dell’ineffabile ‘colonnello’, com’é agevolmente deducibile dalle scie emesse dall’aereo che lo riportava in patria da un viaggio in Polonia e dal MIG libico che si schiantò proprio in quelle ore sui contrafforti della Sila.
Le ricorrenze hanno un elevato valore probatorio, ma non qui, se insistono nell’invocare giustizia per le morti di Bologna e di Ustica provocate da un attentato ‘fascista’ e se, nel ricorrere all’uso della ‘matta’, furono tirati fuori dal mazzo un certo Marco Affatigato, un militante di Destra, che fu individuato due volte dai Servizi, la prima a bordo dell’aereo dell’Itavia precipitato ad Ustica, e la seconda in quel di Bologna mentre la stazione veniva sventrata dal ‘tnt’ (probabilmente a causa di una banale disattenzione da parte del furiere che si era dimenticato di averlo già ‘scritturato’ come passeggero del DC9), e se, in coincidenza col 2 agosto, la cerimonia delle suppliche rivolte al potere politico perché affranchi la verità dalle catene della Ragion di Stato, si sovrappone al fatto che diverse persone, appartenenti a formazioni di Destra, hanno consumato buona parte della loro esistenza in carcere nell’attesa del miracolo.
Ora, parlare di ‘Ragion di Stato’ a proposito di un Paese grande come l’Italia che doveva confrontarsi con una comunità di simpaticissimi beduini comandata da un rodomonte, é cosa eccessiva a fronte della facile suspicione che il segreto riguardi soltanto gli abitanti del suo fetido sottoscala popolato da ogni genere di mafiosi, in cravatta e senza, con le stellette e senza, l’odore inebriante del petrolio che ha migliorato la vita ad un sacco di gente togliendola a qualcun altro, ai De Mauro e ai Pasolini, giusto per fare due nomi.
Ciò premesso, non sono caduto dalla sedia nell’apprendere che si sta, da qualche parte, compiendo il tentativo di infilare la Destra Sociale nel borderò dei carnefici di Capaci. Certo, occorre che il mantra della Destra cattiva e della Destra ‘fascista’ obnubili già da adesso la mente di chi andrà alle urne l’anno prossimo, o magari da qui a poco con l’aria che tira, per puntellare col proprio voto la classe politica che c’é adesso, ma non riesco a capire come le vittime di questo assurdo linciaggio, un ‘crucifige’ corale che parte dagli spalti più alti e rotola giù rombando come una valanga, col grazioso accompagnamento dei media, non si siano ancora riscattate dai sensi di colpa che di solito affliggono gli indecisi e i vinti: per una sconfitta che non fu una sconfitta politica ma l’esito di un rovescio militare, e per un regime che sarebbe stato totalitario se avesse potuto fare a meno dei Savoia, come i bolscevichi dei Romanov e i nazisti degli Hohenzollern che si erano ritirati a vita privata dopo gli ultimi fuochi della Grande Guerra.
Quando nell’Ottatacinque, sull’abbrivio degli attacchi subiti dalla vecchia Sinistra per il mio primo libro sul caso Matteotti (col quale sostenevo che si trattava di un delitto concepito apposta per mettere fuori gioco il ‘duce’) mi trasferii, armi e bagagli e una grande voglia di smantellare le truffe storiografiche del mainstream, sulla riva destra del fiume, vi trovai solo i resti di un happening andato a male, di una grigia rassegnazione. Piuttosto che una salutare carrellata sugli errori collezionati dal regime (quali l’essere entrato in guerra senza un’adeguata preparazione e l’aver partorito il mostro delle leggi razziali) ciò che mi colpì fu la postura del braccio piegato sul viso, la chiusura in clinch, che mentre, da un lato, rendeva impossibile il recupero degli aspetti positivi di quell’esperienza politica (imbastardita, prima, dalla coabitazione con la Corona, e poi dall’asfissiante tutela dell’occupante tedesco) , dall’altro, vanificava ogni menomo tentativo di verificare se proprio questa dualità (in ispecie, quella con ‘sciaboletta’, così piccolo, così patetico, così scialbo) non nascondesse dentro di sé la chiave di due clamorosi delitti attribuiti al PNF, come l’assassinio di Matteotti, nel qual confluirono due moventi paralleli ( la vendetta degli Inglesi per essere stati estromessi all’ultimo momento dall’asta per i petroli e l’allarme negli ambienti reazionari contermini al Quirinale per l’apertura al PSU che isolava i comunisti ma tagliava anche le unghie troppo affilate del padronato), e come, inoltre, l’uccisione a Bagnoles de l’Orne dei due fratelli Rosselli, ai quali fu fatto pagare (é il frutto di un’altra mia ricerca in archivio) il tentativo di rendere pubblici i documenti trafugati dal nostro controspionaggio nel febbraio del 1917 dalla cassaforte del consolato austriaco di Zurigo, carte da cui si evinceva al di là di ogni ragionevole dubbio che due corazzate della nostra flotta, la ‘Benedetto Brin’ e la ‘Leonardo da Vinci’, erano state affondate mentre erano in porto a seguito di un’azione di sabotaggio orchestrata dagli austriaci, ma con la partecipazione attiva di esponenti del Vaticano e di un alto ufficiale di Marina che era allora alle dipendenze dirette del Re.
Tutto questo, in definitiva, per ripetere un concetto già espresso in altre occasioni: che se si vuole abbandonare il ghetto e farla finita con la sindrome di Calimero, insieme a tante altre cose (procurarsi, ad esempio, una porzione infinitesimale dei media e rinunciare all’antiquariato), bisogna smetterla di leggere la nostra maledetta storia sui libri scritti dagli altri: intossicano, mandano fuori.
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