Di Maio, i giochi di palazzo e il 2023
Il peggio del peggio. Quello a cui abbiamo dovuto assistere in questi giorni, in zona Parlamento e dintorni, è qualcosa di ignobile, che va ben al di là dei nostri peggiori incubi. E, quel che è peggio, la stampa di regime ci ha dipinto tutto questo come qualcosa di epocale, una svolta storica, che cambierà per sempre il corso della politica nazionale.
Non bastava Mario Draghi, il banchiere imposto alla nazione, per fare gli interessi dei potentati mondiali, a spiegarci che l’Italia deve stare, senza se e senza ma, dalla parte degli ucraini, aggrediti da quei cattivoni dei russi. A rafforzare il concetto è arrivato un altro statista di livello assoluto, “Giggino il bibitaro”, che dal 2018 – dopo la preziosa esperienza allo stadio San Paolo (oggi Maradona) di Napoli, ad accogliere ospiti importanti e a omaggiarli con bibite fresche e panini – frequenta, da titolare, vari palazzi ministeriali, avendo ricoperto anche il ruolo di vicepremier.
Giggino Di Maio, che da “bibitaro” si è trasformato in ambasciatore del Paese nel mondo, in quanto ministro degli Esteri, ha definitivamente rotto con il suo ex Movimento (quello delle 5 Stelle e delle mille poltrone), perché, a suo dire, “mette in pericolo la sicurezza nazionale, con una posizione in contrasto con l’atlantismo”. In poche parole, Giuseppe Conte, il nuovo capo dei grillini, non è abbastanza filoamericano e lui, che guida gli Esteri in un esecutivo che prende ordini direttamente da Washington, questa cosa proprio non può digerirla.
Così, subito dopo il meraviglioso discorso di Draghi in Parlamento, nel quale il Migliore sottolineava, una volta di più, la cattiveria di Putin e che, se proprio si dovrà arrivare alla pace, dovrà essere una pace dettata dall’Ucraina, Di Maio ha convocato una conferenza stampa e ha annunciato la sua uscita dal Movimento 5 Stelle, per dar vita a nuovi gruppi parlamentari, denominati “Insieme per il Futuro”.
Nasce, dunque, un nuovo partito, che, tanto per cambiare, guarda al centro. Così, ben presto Renzi e Di Maio, una volta acerrimi nemici, discuteranno insieme di candidature per le Politiche del 2023. Ed è facile prevedere che, oltre al sindaco di Milano, Beppe Sala, che si è già dichiarato disponibile per un inciucione centrista, arriverà nel gruppone anche Carlo Calenda, che i sondaggi e il voto in qualche città danno in ascesa.
Una schifezza, insomma, che più schifezza non potrebbe essere. Eppure, giornalini e giornaloni, con qualche rara eccezione, hanno accolto il partitino di Di Maio come una novità fondamentale, che può cambiare le carte in tavola, in vista delle Politiche. Idee, ovviamente, nessuna. L’unica cosa che Giggino è riuscito a dire è che “adesso uno non vale più uno”, come ai tempi d’oro del Movimenti 5 Stelle. E’ ovvio: un iscritto qualsiasi al Movimento non può certo contare come uno statista del livello di Di Maio, che ha messo le bibite in soffitta e sfoggia da quasi cinque anni perfetti abiti ministeriali.
Il problema è che a pagare, come sempre, sarà la nostra povera Italia. Perché questa altro non è che una manovra di Palazzo, per rafforzare Mario Draghi e condurlo senza scossoni alla fine della legislatura. E, quando si voterà, dalle urne uscirà quasi certamente un nuovo Vietnam parlamentare. A quel punto, per Sergio Mattarella sarà un gioco da ragazzi dichiarare che “in questa situazione, abbiamo il dovere di dare comunque un Governo forte al Paese e i partiti mi hanno indicato un nome solo”. Che, possiamo scommetterci, sarà ancora quello di Mario Draghi e certamente non quello di Giorgia Meloni, che pure, leggendo le chat dei suoi fedelissimi, si sente già alla guida di Palazzo Chigi. Un’illusione, la sua e quella dei “fratellini”, destinata a svanire subito dopo il voto del 2023.
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