L’ultima fatica di Enrico Ruggeri (cantautore scomodo), ha un titolo altisonante La rivoluzione, sostantivo romantico dal retrogusto nostalgico, ingabbiato nelle carte della Storia, demodè o meglio un po’ decò da intellettuali col vezzo del Che, trapassato oramai nel linguaggio al più rassicurante riformismo del mainstream ostile a barricate e conservatorismo, un passeportout per la colonizzazione delle coscienze cui offrire (a pagamento) opzioni, mai la libertà di evadere dallo stallo di riferimento, un cocktail di materialismo storico, politica finanziaria e progressismo liberal di mamma anglosassone.
Canta Rrouge: “Siamo la rivoluzione da sempre sognata/Quello che avremmo tanto voluto così desiderata/Vincitori di un grande girone e poi sconfitti in finale/Perché quella sera avevamo da fare…”. Eh già quella rivoluzione globale cresciuta nelle aule, costruita nelle oceaniche assemblee, sfociata nelle occupazioni sfidando a bastonate le forze dell’ordine proletarie mentre lo Stato da ipotenusa teneva l’un contro l’altro armati i due cateti, sinistra e destra, mantenendo il potere.
La parola d’ordine di quella generazione fu: contestazione, il Gran Rifiuto di un ordine costituito repressivo, un orologio sociale sincronizzato per l’uomo a una sola dimensione, quella produttiva tutto il resto era scarto, il Prometeo tecnologico (di cui parlerà Heidegger) contro Narciso e Orfeo, modelli marcusiani opposti, cognitivo-emotivo, la tigre degli appetiti cavalcata da Dioniso, ebro di disordine e creatività lanciato contro l’armonia borghese. Quella rivoluzione restò incompiuta sfarinatasi in mille e mille agguati, cortei, sprangate e troppi giovani morti ammazzati per l’idea intinta nella colla di farina per i manifesti.
No caro Ruggeri non abbiamo vinto alcun grande girone e la finale è stato il terrorismo, quello sciame ribelle s’impigliò nella tela del ragno, fu l’amore inespresso fra Odisseo e Nausicaa, profondo, tormentato ma senza matrimonio perché ciascuno dei due amanti restò chiuso in sé stesso, mentre la ciurma preparava il buon ritorno a Itaca.
Avevamo da fare, e che cosa? Costruire la nuova Chiesa con la youth culture, bruciando sulla pira costumi, valori e fedi giudicati obsoleti perché legati alla tradizione contadina, borghese, proletaria, bisognava spazzarla via con una rivoluzione.0, una fiammata incendiaria tale da bruciare tutto fino all’orizzonte da dove s’è levato poi il sole triste della barbarie, l’ultimo atto, scompariranno l’uomo a una dimensione, l’uomo digitale, evaporando in gas e il ragno griderà: “Viva l’automazione”.
La nostra generazione, ormai canuta, è stata l’ultima di carne e sangue d’ un romanticismo ribelle tout court, in principio fu anarchismo senza bandiere, partiti, Stato, un’esplosione spontanea breve, unitaria poi disinnescata presto lasciando fuochi accesi alimentati da altri. La rivoluzione agognata assunse appunto la geometria di quel triangolo rettangolo sopracitato ripristinando il clima di guerra civile e riallacciando quel filo rosso srotolato dal ‘43 ai giorni nostri senza soluzione di continuità, certo con truppe, armamenti e strumenti diversi, ma volutamente ignorando ogni passo verso una riconciliazione per porre fine a una campagna d’odio estenuante.
Esempio recente uno stralcio del discorso del Presidente della Repubblica Mattarella a Ravenna per il centenario dell’assalto squadrista alla Federazione delle Cooperative: ““Ricordiamo oggi, qui a Ravenna, una pagina di violenza, di devastazione e di morte, nel capitolo della nostra storia che avrebbe portato alla perdita della libertà per gli italiani, con l’avvio della stagione buia della dittatura fascista” Ravenna 28 luglio 2022. Che senso ha oggi, in campagna elettorale, se non un monito senza veli a non votare a destra perché in odore di neofascismo, il preambolo dei media allineati d’altronde è già fango, poi verranno tonnellate di rifiuti forniti da Gualtieri per sommergere il nemico magari messo sotto inchiesta da una Magistratura a orologeria usa a gettare ombre gotiche sull’avversario di turno.
Di fronte a questo maniacale deja vu privo di contenuti politici, ebbene sì occorrerebbe come il pane dire basta con la rivolta, i problemi paiono infiniti, povertà, precarietà, paure basterebbero queste tre p che riassumono gli invisibili, a incendiare il Palazzo. Ci vorrebbe il coraggio di osare mi diceva un ragazzo, mio caro ma se la la Città Eterna è coperta da eterna mondezza e non c’è un partito, un movimento, che dico un solo cittadino che urli la sua rabbia al Campidoglio, vuol dire che al soffio di quel ragno il popolo è diventato polvere di farina, microcosmo.
Le rivoluzioni hanno bisogno di comunità militanti non di individui succhiati via dalla vita sociale però interconnessi, perciò riponiamo sogni svaniti, nostalgie e curiosità da moglie di Lot rimasta innominata perché statua di sale, et allons à la guerre comme à la guerre cioè con quel che abbiamo e ci fornisce la storia di adesso non di allora, non dimenticando, a parer mio, su quale riva camminiamo da sempre seppure brontolando o dissentendo. È una sfida elettorale, vincere o perdere, è qui la battaglia di Zama, è tutta qui oggi la rivoluzione.
Immagine: Marcel Duchamp, Fontaine (Urinoir), 1917