Elogio della follia


 

Elogio della follia

Un Paese anziano è soggetto al delirium, uscire dal solco, vagare fuori del seminato in stato confusionale, la maggioranza è disorientata, non sa chi sia, perché debba ingoiare pillole web necessarie ad anestetizzare comportamenti aggressivi, ribelli, fuori e contro la medicina della normalità quiescente. E quanti ce ne sono di vecchi folli reclusi nei lager di riposo, espulsi dalla memoria, schizzati via dalla ruota panoramica per quella “saviezza rovesciata” o amorfismo che li ha gettati con le chiavi nel pozzo. Un Ade non più degli stralunati al Manicomo di Maggiano, cui il genio di Lorenzo Viani dedicò l’ ultima fatica letteraria, ma di una gran massa di stravolti, delusi, sfruttati, asserragliati in ciò che resta dell’io, fattosi piccino, piccino, recluso in gabbia, mentre là fuori il baccano mediatico degli efficienti soffoca ogni voce, lamento, grido di rabbia.

La maggioranza relativa è in manicomio, provano a sedarla con smartphone, palinsesti demenziali, aforismi chic, temi triti e ritriti, paga una retta altissima per resistere e sopravvivere ai latrati del cerbero quarto potere, assassino d’ogni speranza, già perché le cupole oligarchiche governano eccome facendo lautissima usura col terrore, la morte, (guerre, spread, gas alle stelle, ecc.) chiudendoci nel lockdown della paura ove vivere non è più un diritto ma un privilegio e un costo.

Proprio la cultura dei diritti ha per assurdo cancellato il valore etico, giuridico, sociale inseparabile dall’essere, la dignità umana, quella condizione di nobiltà in cui l’uomo, la donna sono posti dalla loro natura, una dignità piena (la Genesi ripete due volte che l’uomo è a immagine somiglianza di Dio) mai disgiunta dalla sua condizione, non graduabile secondo gli stati biologici dell’essere, le condizioni neuro psichiche, socio-economiche, di fede e quant’altro attiene all’unicità inimitabile dell’essere. Qual’è l’arma letale contro la dignità dell’uomo tale da renderlo un tollerato superfluo al fluire inarrestabile del progresso, un neutro numero in codice per Stato, impiego, impresa, è lo sradicamento dei singoli e delle comunità, la cancellazione delle radici sviluppatesi col tempo dentro uno spazio di interrelazioni forti, testamento di generazioni, sedimenti accumulatisi in grado di forgiare un unicum di comunità nelle quali ciascun individuo si riconosce perché ne è parte sostanziale, ha il suo posto, ama.

Ma il topo raffinato di città ha costretto e invogliato il topo di campagna a strappare le radici, trapiantandosi, da alienato, in fabbrica, ufficio, accasandosi in un’arnia brulicante di periferia; 5000 nostri paesi sono oramai ghost countries (dati di Legambiente), oltre duemila in stato di necrosi, la colonizzazione del pensiero globale ha reciso le tradizioni, estinguendole perché superflue alla tecno avventura del cyber futuro.

Tra il 1942 ed il 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, Simone Weil, scrisse la sua ultima opera L’enracinement (radicamento) lucida analisi, già allora, sulla crisi religiosa e culturale della nostra civiltà occidentale, che era ed è il prodotto partorito dall’età moderna a partire dalla cultura elitaria del Rinascimento. Da lì in poi l’uomo ha perduto progressivamente le sue radici inseguendo un modello astratto antropocentrico, l’Uomo (nudo), plasmato da scienza, tecnica, economia, un essere volatile in evoluzione, “cittadino del mondo”, trasferibile ovunque ma anche cancellabile da chiunque. Il radicamento invece, argomentava la Weil, è il “bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana”, ancoraggio di identità collettive e individuali, un tema rivoluzionario assente dalla rissa politica, dalle latrine dei talk show, affidato ai taumaturgici capestri Pnrr, cosa ci resta allora tra le dita se non la sabbia della confusione dimessa, il delirium appunto o la fuga ascetica o ancor più in là la pazzia, beh, più che la bellezza, forse solo la follia salverà il mondo, aveva ragione il saggio Erasmo da Rotterdam nel farne il suo elogio.

 

Immagine: Il Pensiero Forte

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