La storia di uomini che seppero essere d’animo grande. Esempi. Una eredità di sangue, una eredità di spirito. Era il raccontare la storia a tavola, a noi bimbetti, di mio padre. E, sebbene non fui all’altezza – “spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione”, come s’espresse Robert Brasillach guardando la gioventù in camicia nera degli anni Trenta – ritrovai sovente dietro la cattedra l’accento giusto e in piazza m’accompagnai a un tipo umano che di questo ideale se ne faceva vanto.
Oggi vi racconto – una striminzita modesta paginetta, lo so, ma sincera – di chi, poeta senza versi e guerriero senza spada, ha rappresentato – uno fra tanti – ciò che era ed è, appunto l’appartenere ad altra razza. Nonostante se ne sia andato ormai da anni, sono certo, in quello spazio di cielo, riservato a santi martiri ed eroi, mi manca il suo spiritaccio icastico e guascone, come so manca a mio figlio, che gli fu scudiero nell’apprendistato alla vita.
Non occorre, va da sé, essere e dolicocefali e alti e biondi e di carnagione chiara e d’azzurro il colore degli occhi. D’altro animus, se preferite… Non alto, scuro, i tratti marcati, spigoloso nel fisico, gli occhi spiritati, il sorriso volto al ghigno. “Noi i belli della Rivoluzione!”, soleva ripetere e mi rendeva partecipe, bontà sua!, di questa sua estetica, rifiutata da ogni libro di storia dell’arte. Del resto con i capelli lunghi incolti e una barbetta ispida e rada e gli occhiali dalla montatura pesante e tutto ossa e niente ciccia, cosa potevo pretendere? Potrei raccontare del cameratismo, dell’amicizia, del cappuccino al Penny bar, del sacco a pelo nella facoltà di Legge occupata, della foto resa celebre di quel 1 marzo del ’68 a Valle Giulia in cui siamo fianco a fianco, la spranga in mano, e di quell’altra foto sulla scalinata di Giurisprudenza mentre fa il saluto romano, indossando la giacca grigia a quadretti di buona stoffa che mia madre gli aveva donato sussurrando “Tanto a Mario non serve a Regina Coeli…”
Tante le immagini, i ricordi, la memoria condivisa. Ognuno un frammento di quella storia del cuore, delle emozioni che si fanno scavo profondo ove gettare le sementa dell’Idea che non s’arrende… Un solo nitido ricordo – sembra una sorta di “leggenda metropolitana” – riportata autentica – e tutta tondo ci sta con il personaggio -, primi anni ’60: “le scorribande notturne nella città dormiente erano un must, oggetto anche di narrazioni affidate alla tradizione orale. Si raccontava di quando Tonino, impegnato solo soletto (lui era fatto così) a tappezzare le vie del centro, si imbattè in un gruppetto di compagni (fra i quali i due figli del senatore comunista Scionti) che gli intimarono minacciosi: “Sei solo e noi siamo in sei; molla tutto se non vuoi buscarle!”, al che Tonino rispose, flemmatico: “Non sono solo. Siamo in quattro: io, il secchio, il pennello e la scala…”, e così detto infilò il secchio sulla testa di uno, “spennellò” di colla un altro, “infilzò” con la scala un terzo e assestò un paio di ceffoni al quarto. Degli altri due… non ci sono pervenute notizie nel buio della notte”. Tonino, uno di noi.
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