TikTok e l’orrore delle elezioni
Debbo francamente ammettere di essermi stancato del 26 settembre perché ciò che allora dovrebbe succedere é già successo. Non cambierà nulla. Basta infatti retrocedere la moviola di qualche lustro per accorgersi, ad esempio, che Berlusconi sta sempre lì, catafratto nella sua effervescente mediocrità, il volto lavorato da un truccatore di mummie, per darci, dal davanzale televisivo, lezioni su come si conquista facilmente il consenso, la dentiera gratis per gli anziani e un rettangolino su TikTok per inondare di facezie i più giovani. Qualcuno deve avermi insegnato a suo tempo che tutto ciò che comincia, finisce, ma non per Berlusconi, del quale, rimangono, in qualche scantinato della RAI, i cartelloni preparati per spiegare, alla vigilia di una consultazione elettorale, quante autostrade e quante gallerie avrebbe costruito per favorire la mobilità in Italia. Dovettero fermarlo per impedirgli di sconfinare col gessetto, una sorta di raptus. Reggetemi! Reggetemi! gridava: fece molta impressione. Berlusconi comunque fu il primo a capire che l’uso mirato del tubo catodico avrebbe reso possibile la comparsa sulla scena di una nuova creatura, a metà tra il burlesque e l’iniziativa politica e che col passare del tempo le caratteristiche dell’uno si sarebbero inevitabilmente dilatate a spese dell’altra, un fenomeno che non sarebbe rientrato neppure con l’avvento dello schermo piatto. Fu abile nel far passare, sulle frequenze di ‘Drive In’, che era già di per sé, un’antologia di messaggi in codice, una serie di contenuti per la cui esposizione non sarebbero stati sufficienti mille comizi. E fu così che la retrocessione a mero intrattenimento della Politica, intesa originariamente nella sua accezione platonica, di implacabile rovello funzionale al Bene Comune, aprì, almeno qui da noi, la strada a chi vi salì sopra scambiandola per l’otto volante (vedi Antonio Razzi) e a chiunque si sentisse esonerato dall’obbligo di adeguarsi al precetto della coerenza e dell’onore. Su ciò che restava del muro di Berlino fino a qualche anno fa campeggiava il bacio tra Honecker e Breznev, la lingua del vassallo tedesco che andava su e giù nella gola del suo padrone, ma era, a stringere, la potente rappresentazione dell’amore tra due esseri che steccavano, sia pure in proporzioni diseguali, lo stesso destino: cosa molto diversa dal sontuoso baciamano (la purezza del gesto assicurata da chissà quanti anni di apprendistato…) con cui Berlusconi salutò il colonnello Gheddafi prima di aderire alla coalizione che lo cercava nel deserto per ammazzarlo.
La solare inconseguenza dei due atti, però, non fa testo: la subalternità all’alleato’ americano é una costante della politica italiana sin dal ’43. Sorprende (e scandalizza) forse il modo. Credo di essere stato di manica corta nel dire, in un articolo di due settimane or sono, che il sistema politico italiano é ormai una copia imperfetta di quello americano, dove, sotto le apparenze di una falsa democrazia (l’esoscheletro lasciato sulla corteccia dell’albero da una cicala che é volata via), il popolo conta assai meno che in una qualsiasi dittatura, e dove, inoltre il potere, gestito da due massonerie concorrenti, ha bisogno, come un aeroplano, di mantenersi in quota servendosi, oltre che di un potente propulsore – la cifra economica – di due ali, una a destra e una a sinistra (i Repubblicani e i Democratici, il PD e la Destra parlamentare) con buona pace per gli elettori i quali, usciti dal seggio, tornano soddisfatti a casa, convinti di aver fatto una scelta. Solo che a differenza degli USA e, più in generale, del mondo anglosassone, qui la geometria si decompone nel teatrino dell’eletto che prende dei voti a destra per svicolare a sinistra; nell’espressione, quasi sempre, da ebete, del candidato che si sporge dai manifesti promettendoti il paradiso; nello slogan ‘sarò la sorella di tutti’ che la Cucchi, molto probabilmente su suggerimento di quel genio di Fratoianni che non ne azzecca mai una, ha sfoderato per attrarre su di sè il suffragio dei figli unici; nel rumoroso brulichio dei piccoli partiti che si formano a ridosso della data fissata per le elezioni scimmiottando il malvezzo dei grandi, come quello di esibire le facce ‘omologate’ dal piccolo schermo, il portuale di Trieste che sembrava Luther King, la poliziotta mica male, e, non ultimo, quello di offrire al pubblico rimasto a guardare col naso all’insù certi numeri di alta scuola come la sovrapposizione degli opposti, che proprio opposti non sono, un vecchio comunista che si é fatto, anche sotto Prodi, tutte le stanze del potere uscendone per miracolo completamente illibato, e un quarantenne di incerto avvenire, il quale al basso voltaggio e al timbro molto opaco della sua avversione per la NATO unisce la passione per le logge massoniche, senza che nessuno gli abbia mai spiegato che siamo nel 2022 d.c. e che a credere nelle virtù nascoste della libera muratoria c’é rimasto soltanto lui. Risultato: ‘Italia Sovrana e Popolare’, un bel nome, palle, clavette colorate e schiocchi di frusta, tataratatataaaa.
Se la politica é struggimento, studio, applicazione, sacrificio, non ce n’é neppure più un grammo in giro. A rischio di apparire affetto da qualunquismo (altro termine messo da tempo al bando dagli esegeti del mainstream) io vedo soltanto una folla multicolore che corre, alla stessa velocità dei patiti del ‘black friday’, incontro al premio più importante tra quelli messi in palio dalle lotterie nazionali: fino a diciottomila euro al mese – spesso senza fare un beato cacchio – una lista chilometrica di privilegi e- vuoi mettere? – sentirsi chiamare ‘onorevole’, il soldatino di guardia al Palazzo che batte il tacco nel vederti entrare, la ‘ventiquattrore vuota come il futuro del Paese.
Dal mio personale punto di vista, trattandosi di patologie irreversibili, alimentate dal mio voto, e dal tuo, sarei quasi tentato d’invocare l’astensionismo totale, il buio a mezzogiorno, per vedere, come diceva Jannacci, l’effetto che fa: sempre meglio di questa agonia che non finisce mai, di questa presa al collo. Alla prossima.
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