Ez

 
 

Ez

Il 1° novembre correranno i cinquant’anni dalla morte a Venezia di Ezra Weston Loomis Pound

 

Primo novembre, festa d’Ognissanti, la voce di carne tacque per due grandi poeti “folli”, Ezra Pound e Alda Merini, nelle brume della laguna veneziana il “miglior fabbro” (1972), nella sua Milano “la poetessa dei Navigli” (2009), ma il legno dell’anima, inciso dalla sgorbia dei manicomi, è forma in versi, mosaici di visioni tra realtà e l’oltre, androfania di Deucalione e Alcesti, morte e rinascita, senza retorica, immortali ai due mondi.

“Vanità delle vanità, dice Qoèlet,/vanità delle vanità, tutto è vanità” amarezza del figlio di David, “Strappa da te la vanità,/sei un cane bastonato sotto la grandine/una pica rigonfia in uno spasimo di sole/[…]strappa da te la vanità” l’imperativo di Ez nel Canto 81 dei Pisan Cantos, nella gabbia di ferro di Coltano (1.80 x 2.00) ruminava poesia, del manicomio di St. Elisabeth poi fece un cenacolo di letteratura. Inferno, Purgatorio, non poté scrivere Paradiso, Confucio non esplorò le stanze della metafisica, eppure “il trovatore” dell’Idaho cercò, nuovo Dante, d’inerpicarsi sull’erta montagna senza arrivare in cima, oppure sì, chissà, è un mistero tutto da esplorare, avesse incontrato la Merini forse avrebbe visto il cielo.

Cinquant’anni or sono il poeta ci lasciava a lume spento ma con la testarda voglia di ripercorrere il sentiero tracciato per noi dalla Natura, affrontare la transumanza dalla foresta buia dell’omologazione depressiva ai campi d’ arare, seminare cò idee e sogni, ricchezza inespugnabile da ladri e malfattori, “Rendi forti i vecchi sogni/perché questo nostro mondo non perda coraggio/a lume spento”, e quali i sogni del poeta?

È il 10 settembre del 1944, Ez s’appunta mentre cammina sulla via Salaria dopo Fara Sabina: “entrai nella repubblica dell’Utopia, […]. Trovando gli abitanti piuttosto allegri, io domandai la causa della loro serenità e mi fu risposto che essa era dovuta alle loro leggi e al sistema d’istruzione ricevuta fin dai primi anni di scuola”.

Il fulcro della loro felicità terrena era nella cura dei particolari, nella scuola e nell’assenza, per legge, di usura sulla moneta, per sua origine sterile mezzo di scambio, non merce ambita, perché “il denaro non può generare denaro” sentenziava Aristotele, con tassi di interesse, di cambio, di speculazioni finanziarie chiamate “investimenti”, ecc. Certo la sola tassa mensile sulla moneta, a scadenza annuale quasi fosse un genere alimentare, stante la complessità dell’economia, autentica tela di ragno dell’Usurocrazia mondiale, ci appare sogno infantile di uno “squilibrato”, arcadia rurale, utopia ieratica priva di spendibilità concreta nella giungla della “scienza finanziaria”, ma l’idea forza che dalla moneta non debba germogliare altra moneta è l’unico vaccino contro il capitalismo usuraio che strappa via la dignità della vita facendo schiavi.

Il guelfo bianco Dante, perseguitato quanto Ez per le sue convinzioni politiche, condannò cupidigia e usura accomodando i violenti contro Dio a l’ Inferno  (Canto XVII) perché arricchitisi con denaro dal denaro, non col duro lavoro e Pound scriveva nel celebre Canto XLV: “Con usura nessuno ha una solida casa/ […] con usura/non v’è chiesa con affreschi di paradiso/[…]”, quanto è attuale oggi questa  lirica pur restando pagina morta, non s’odono difatti sussurri o meglio grida contro la criminale speculazione cainita e chi la genera gestendola nelle banche e nei templi delle Borse, eppure essa genera profonde ferite sociali, profondi squarci e li si vuole  curare coi cerotti.

Combattere l’usura non è certo vanità, conclude il poeta: “Ma aver fatto piuttosto che non fare/questa non è vanità/[…]L’errore sta tutto nel non fatto,/ sta nella diffidenza che tentenna”.

Una diffidenza radicata nel potere dell’economia, perciò corrotta, corruttibile, una diffidenza disonesta fonte di ricchezza d’una élite di parassiti, di capestro sociale per i popoli, un non fare complice di innaturali disuguaglianze causate non da talenti diversi ma sui profitti degli “investimenti” finanziari, il rischio, dicono, giustifica i guadagni generando da un lato nababbi, dall’altro crolli (vedi il 2008) e debiti, altra cambiale di guadagno.

Sopra il Campidoglio di quella Repubblica dell’Utopia stava incisa una massima:

IL TESORO D’UNA NAZIONE È LA SUA ONESTA’. La fionda le pagine di Lavoro e usura, le pietre i versi dei Cantos, testimoni consegnatici da un David onesto che sfidò Golia.

 

Ma avere fatto piuttosto che non fare
questa non è vanità
aver bussato, discretamente,
perché un Blunt ti apra
avere colto dall’aria una tradizione viva
o da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma
questa non è vanità.
L’errore sta tutto nel non fatto,
sta nella diffidenza che tentenna.

 

Torna in alto