Quelli che non c’erano

 

Quelli che non c’erano

Cinque indagini giudiziarie, quattro processi, più due commissioni parlamentari d’inchiesta, alle quali si aggiunge la materia prodotta in almeno altri tre simposi dedicati alle stragi, alla P2 e all’affare Mitrokhin: il gioco perverso delle analogie mi restituisce intatta l’immagine di certi presepi, dove il bambinello giace dimenticato in fondo ad una capannina di cartapesta mentre intorno a lui, disposti in cerchi concentrici sempre più vicini l’uno all’altro, compaiono la lavandaia che strizza i panni, il postino che smonta dalla bicicletta e una stazione di servizio con tanto di ragazzo alla pompa. Dice: ma che c’entra? Risposta: assolutamente niente. A questa colossale montatura, allestita nel nome di Moro, hanno dato il loro illuminato contributo, in qualità di consulenti, alcune persone che conosco: brave persone, per carità, di quelle che mettono in fila gli addendi senza essere capaci di tirare le somme, o di quelle altre sulla cui testa potrebbero cadere mille mele, ma non assomigliano a Newton.

Contrariamente a quel che si crede, quando il potere costituito intende nascondere la verità, lo fa moltiplicando per enne le occasioni che gli servono per dimostrare a posteriori di averla cercata, oppure con una serie di interventi che glissano sulle questioni importanti, avvolgendo in modo ossessivo il filo di canapa intorno al fuso che non c’é, ad un certo numero di postulati destituiti di criterio e di fondamento.

Quando rapirono Moro, io mi occupavo di politica estera per ‘Giorni – Vie Nuove’, per l”Astrolabio’, e per ‘Critica Sociale’, tre nobili testate della Sinistra, dalle quali finii per distaccarmi, unitamente al mio stesso ruolo di giornalista, a mano a mano che realizzavo come si risolvesse in un’inutile perdita di tempo il mio interessamento ad altri argomenti quando sarebbe dovuto apparire evidente che lo Stato, dominato da forze a lui superiori, si stava cimentando nella lugubre interpretazione di una vecchia canzonetta del dopoguerra ‘Dove sta Zaza’, e quando, inoltre, si faceva letteratura a buon mercato, sulla falsariga dei vari Sciascia e dei vari Bocca, piuttosto che polarizzare l’attenzione sugli aspetti incontrovertibili della vicenda Moro, uno dei quali era l’insolita presenza di un agente straniero, Steve Pieczenik, nella stanza dei bottoni del Viminale, alla sinistra di un Cossiga declassato a comparsa, e l’altro (di un assortimento che comprende un largo ventaglio di scenari subordinati) era il convincimento, del tutto immotivato e arbitrario, che le ‘Brigate Rosse’, per le quali esisteva solo la testimonianza di uno straccio rosso sistemato alle spalle del prigioniero, avessero compiuto la carneficina di via Fani: un’impresa, per la precisione dei colpi e per la puntualità cronometrica degli atti che dovevano assicurarne il successo, che non era assolutamente nelle corde delle BR, composte per lo più da gitanti della domenica dediti al tiro a segno, ma che rinviava, con assoluta certezza, alla presenza in via Fani di un commando specializzato nel condurre vere e proprie azioni di guerra in un contesto urbano.

La sparizione delle bobine contenenti gli scatti eseguiti sulla scena dell’attentato, quasi nell’immediatezza dei fatti, da Nucci (ASCA) e Ianni (ANSA), fa il paio col sarcasmo riservato ad una cittadina che in diverse deposizioni aveva giurato di aver notato il ‘colorito olivastro’ di uno degli attentatori e di averli sentiti mentre si scambiavano in mezzo al fumo e agli spari degli ordini in una lingua a lei sconosciuta, che non era né francese, nè tedesco né inglese: é tuttavia evidente che la bonifica del luogo del delitto dalle tracce che potevano giustificare l’espulsione delle Brigate Rosse dal cast dell’affare Moro per mettere al loro posto solo gli apparati dello Stato e quelli dei loro partners internazionali, avvenne non solo per sottrazione, ma anche per addizione, nel senso che vi furono introdotti alcuni esponenti della ‘ndrangheta, la ‘banda della Magliana’ e altra umanità – che con l’economia complessiva dell’imboscata di via Fani e degli sviluppi che ne seguirono, non ci azzeccavano, : insomma, la metafora del presepe , snaturato dall’aggiunta di sagome prese altrove, un classico nella storia della disinformazione operata per un eccesso di informazione, pleonasticamente sbagliata, un capolavoro di ‘intelligence’.

Benché sia sfuggito a quasi tutti gli osservatori, distratti da tali magheggi, uno degli eventi nodali di quel periodo, in concomitanza con le prime battute dell’affare Moro, fu la trasformazione in fretta e in furia di un foglio d’agenzia, ‘O.P.’ destinato a pochi abbonati, in una rivista per l’edicola. Pecorelli, buon uomo, era tormentato dal desiderio di sbottonarsi. In effetti, la maggior parte delle risposte, alle domande che aleggiavano intorno a via Fani e che si sarebbero conservate pressoché intatte fino ad oggi, come le reliquie del santo – con l’aggiunta di altre domande (posso dirlo?), una più scema dell’altra – venne fuori miracolosamente dai primi numeri di ‘O.P.’, laddove il direttore, nel registrare, basito, le grida di giubilo emesse dai brigatisti in gabbia a Torino alla notizia del rapimento di Moro e del massacro della sua scorta, sottolineava come fossero assurde queste reazioni (da parte di gente che non temeva l’ergastolo avendone già collezionati parecchi), dato che il delitto, per ragioni molto diverse da quelle addotte nei comunicati apocrifi delle BR, era stato commesso da altri attori utilizzando il logo del partito armato come pura e semplice copertura. Sempre nelle settimane iniziali della lunga cattività imposta al presidente della D.C., su ‘O.P.’ comparve un articolo nel quale si sosteneva che l’operazione contro Moro – a suo dire, la più sofisticata e la più complessa mai messa in atto in un Paese dell’Occidente industrializzato – costituiva il riflesso ritardato degli accordi di Yalta, volendo significare, al di là di ogni dubbio e di ogni travisamento dettato da malafede – che la repressione del ‘compromesso storico’ aveva visto la concorde partecipazione delle due potenze planetarie, USA e URSS, entrambe preoccupate dagli effetti negativi che l’ingresso nella maggioranza di Governo del PCI avrebbe sortito sul controllo delle loro spettanze strategiche, e ciò, a dispetto della lettura, in chiave squisitamente ‘amerikana’, delle origini remote del 16 marzo e di un ruolo ‘sovietico’, che é parso sempre, anche nelle analisi più spregiudicate, di voltaggio alquanto modesto o addirittura inesistente, giacché dalle fonti da me consultate durante quei 55 giorni e dagli studi intrapresi successivamente sui documenti versati all’Archivio Centrale dello Stato emerge la concreta possibilità che Pieczenik fosse lì, per conto dell’etablishment americano, allo scopo di impedire che gli ‘italiani’ s’inventassero il modo di salvare la vita al presidente della DC, e che qualche Paese, di quelli inscritti nell’orbita gravitazionale dell’URSS, che era popolato da persone dal ‘colorito olivastro’, avesse dispiegato sul terreno la manodopera qualificata per l’attuazione del colpo in via Fani, prendendosi successivamente cura del prigioniero.

In chiusura, dovendomi piegare allo spazio tiranno, e calandomi nei panni logori di un Besozzi (lo faccio gratis da una vita), chiedo a chi legge, purtroppo distrattamente, se per i brigatisti rossi che oggi sono fuori o che accompagnano, per punizione, le vecchiette ad attraversare la strada (ce ne fosse uno, uno solo, che per sbaglio, nel fare amarcord, confermasse la versione data dall’altro), il destino sarebbe stato diverso se invece di trovarsi, come sostiene la ‘vulgata’, con addosso una divisa da aviere e con un’arma in mano, intorno alle ore 9 del 16 marzo del 1978 in via Fani, si fossero alzati dal letto molto più tardi , e se la risposta, necessariamente negativa, non aiuterebbe a capire.

Per me, sì, almeno un po’.

 

Immagine: https://polizianellastoria.wordpress.com/

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