Momento platonico vs momento senofonteo
Francois Chatelet, nel suo testo “La nascita del pensiero storico”, presenta in questo modo il trapasso dal pensiero storico platonico al pensiero storico senofonteo, antitetici tra loro ma in realtà pressoché contemporanei.
Il pensiero storico di Platone è tutto incentrato su tre cardini: Polis, come luogo dove avviene la vita superiore dell’individuo; Callipoli, come modello da raggiungere per garantire alla società durevolezza e giustizia; Educazione, come modo per plasmare la classe dirigente che deve tenere assieme questo assunto.
Agendo sulla città Platone può immaginarsi una società numericamente ristretta dove è possibile esercitare un controllo diretto. Non esistono intermediari tra lo Stato/Polis e i cittadini, in Platone. La famiglia, che è l’intermediario più potente, deve venir disarticolata. A Platone sembra, in ordine, possibile desiderabile e necessario organizzare la realtà in vista di una realtà ideale che a lui pare l’unica degna di esistere. Le guerre peloponnesiache e le peristalsi politiche ateniesi hanno squalificato la realtà a tal punto che essa deve essere solo modificata e rifondata da cima a fondo.
Quale è il mezzo per ottenere questo? L’educazione intesa come discesa in terra di un modo di vedere il mondo sensibile vero perché esterno, dato in modo razionale e incontrovertibile. L’educazione che non può non essere monodirezionale: dal modello, vero e sincero, alla realtà.
Platone può fare tutto questo perché ha (o crede di avere ancora) per le mani un’entità, la città, che è limitata nello spazio economico e politico e numerico, a suo agio col concetto di Legge e dove la democrazia ha preparato per lui la categoria di cittadino, che non ha intermediari con la realtà se non la Legge e lo Stato.
Il pensiero storico di Senofonte è, al contrario, antidogmatico. Egli non parte da un modello da imporre ma da una realtà da gestire. Il mondo reale non è solo luogo di allontanamento dall’età dell’oro, bensì qualcosa di reale di per sé da cui è lecito trarre lezioni.
Lezioni che Senofonte trae in scioltezza. Innanzitutto, la superiorità e concretezza della gestione invece che della legge. Gestire è atto sempre contingente, responsivo, per sua natura fallibile, contro ogni modello. O, meglio, sopra ogni modello, perché attaccato ad un fine (il benessere, la resa) che è più importante del mezzo col quale si realizza. “Gestire” come un padre; il paternalismo senofonteo deduce la sua realtà dall’istituzione più immediata e meno cerebrale che vi sia, la Famiglia. Che invece Platone voleva disseccare.
Senofonte che ha accettato senza pianti la dissoluzione della Polis e l’esperienza dei grandi Stati: Macedonia, Ciro, Sicilia dei tiranni. Il Regno che è per sua natura luogo storico della gestione, del “meglio” e non del “perfetto”, in cui il re non può nemmeno pensare di creare i cittadini che possiede.
Il momento senofonteo nasce dalle stesse intemperie politiche di quello platonico, alle quali però Platone da risposte incentrate sul “Deve essere”. Nella crisi sia voler creare la società perfetta che adattarsi e mettersi in discussione sono opzioni legittime. Il secondo ‘700 produsse sia il perfezionismo politico americano, con l’idea di una Callipoli vergine, sia i più biechi e opportunistici riformismi e paraculismi politici.
Il Novecento è stato un secolo platonico. Non tanto per la tiritera sul totalitarismo bensì per la sua tendenza dominativa e demiurgica. Il Novecento aveva a disposizione un modello diffuso su scala mondiale, lo Stato, che come la città di Platone poteva apparire uno strumento unitario, un maglio storico, un segmento in cui compiere esperimenti perché dominato da categorie del dover essere. Non a caso anche nei paesi democratici le Costituzioni divennero proverbiali florilegi di “Deve essere”. Il “momento platonico” si nutriva anche della similarità del mezzo: l’educazione. Nello stato il cittadino poteva essere educato a modelli esterni, giusti per fede, che dovevano ridiscendere sulla terra per avere materiale politico e umano più predisposto alla società perfetta. Il Novecento, e in tal senso in modo ecumenico e trasversale, è stato un secolo del perfezionismo.
Siamo ora invece, forse, alle soglie di un momento senofonteo. Tutte le categorie più appuntite con cui meditiamo il presente sono incentrate sulla gestione, sul meglio più che sul perfetto, sulla mediazione. Ulrich Beck, Nassim Taleb, Kissinger, e anche i più “teoretici” Harari sono transitati alla gestione del presente e non al suo dover essere plasmato.
Ci ha introdotto al momento senofonteo la crisi dello stato, che non offre più quella cappa aspirante dove fare esperimenti. Le masse sono tante, sfuggenti, sono tornate forti le mediazioni: non più da istituzioni tradizionali ma nuove. L’educazione è ormai un campo di battaglia dove lo Stato è uno dei fornitori di temi ma non più l’unico – si veda la fatica che fanno paesi non occidentali a gestire lo strabordarsi dei temi Occidentali nelle nuove generazioni.
Il dipolo Emergenza-Riunione è la sintesi di un momento dove è la gestione al meglio della realtà ad essere fondamentale, non la sua modifica ideale.
In due parole ciò che ha abbassato il volume del momento platonico ed ha alzato quello del momento senofonteo è stata la fine del luogo storico dove la pianificazione poteva avvenire: lo Stato Novecentesco.
Ne deriva un cambio anche nella percezione della storia. Platone imbastiva una storia incentrata sui modelli “puri”, che performavano meglio o peggio nella resistenza alla decadenza. Sparta era meglio di Atene perché aveva concesso meno al cambiamento sociale e aveva trattenuto l’isonomia. La storia era la misurazione ponderata dei tentativi di realizzare modelli (o parti di modello) che si consideravano perfetti. Senofonte, al contrario, parla di esperienze concrete: non sono, a conti fatti, i modelli a rispondere alla gestione, ma i governi concreti.
Noi stiamo transitando, infatti, a modelli storici dove sono i modelli situati a contare, e non i modelli assoluti. Valutiamo Deng Xiaoping e la sua capacità di articolare il pensiero cinese alle sfide della Cina anni ’70-’80, non valutiamo in prima istanza “il socialismo cinese”. Ci lasciamo affascinare da modelli ibridi perché percepiamo, ma ancora non ammettiamo, che siamo in una fase gestionale e responsiva del mondo, e non più programmatica.
Transitiamo velocemente al momento senofonteo, perché la pantomima del platonismo del “deve essere” non ci fa per niente bene.
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