Soumahoro e dintorni

 

Soumahoro e dintorni

Il caso Soumahoro avrebbe di per sé scarsa importanza se non fosse per le riflessioni che suggerisce relativamente alla facilità con cui l”imprenditorie’ ivoriano é entrato -sono ormai dieci anni – in uno dei due principali spezzoni dell’industria nata coi primi conati dell’invasione: il tratto terminale – l”accoglienza’ – di un percorso all’inizio del quale, nella latitudine del Sahel, fanno affari le combriccole formate dai mezzani e dagli scafisti.

Francamente, mi interessa poco sapere se Soumahoro abbia commesso degli illeciti o se fosse al corrente di quelli di cui é sospettato il gineceo, illustrato da abiti alla moda e da monili d’oro, che gli ruota intorno. Il solo fatto che si possa trarre profitto, a qualunque titolo, dalle sofferenze e dalle difficoltà di un altro essere umano, é un buon motivo per andare di corsa al bagno per vomitare. Vorrei invece capire attraverso quali mulattiere, per definizione impervie e sconosciute ai più, si sia affermata nella cultura cosiddetta di sinistra l’idea che ‘nero é bello e fa bene alla salute’, anche quando uno di questo colore entra, da deputato, a Montecitorio calpestando la guida rossa con gli stivali di gomma incrostati di fango. Fino a qualche settimana fa (poi ho deciso che ne avevo abbastanza di certi spettacoli, per i quali, per soprammercato, pago pure un biglietto sotto forma di canone) imperversava sul piccolo schermo una ‘giornalista’ di origini tunisine che di Storia e di Geografia ne sa quanto un alunno delle scuole elementari che abbia lasciato intonso il sussidiario nella cartella. Il ‘senso di colpa’ che viene evocato come sostrato, nel mondo occidentale, di tutti i pensieri e di tutti i sentimenti orientati verso le popolazioni del Terzo Mondo, specialmente di quelle che hanno patito la stretta del colonialismo nell”800, oltre che a rivelare una sottaciuta impronta razzista, non offre alcuna spiegazione alla presenza tra i banchi del Parlamento di persone che ne sanno meno di lei, come la Serracchiani, per la quale il 25 aprile ha collimato con l’avvento della Repubblica. Su più vasta scala il ‘senso di colpa’ – che si traduce in una costante sovraesposizione, anche negli spot pubblicitari, di elementi estranei alla cultura delle nostre parti e nel loro accostamento a situazioni idilliache – é il cric adoperato dalle elite mondialiste per scardinare le difese immunitarie delle Patrie in questa circoscrizione dell’Occidente e per favorire l’avvento del meticciato: uno stato all’interno del quale il padrone di casa subisce l’aggressività dell’ospite, ciò che succede negli alveari visitati dalle api mandarine, o a Bruxelles, dove, immediatamente dopo la partita dei ‘Mondiali’ vinta dalla nazionale del Marocco su quella belga, migliaia di maghrebini si sono dati appuntamento al centro della città per metterla a ferro e a fuoco.

L’integrazione é l’ipotesi ripudiata sia dai giovani immigrati ai quali sono state aperte le porte, senza che sia stato possibile farli entrare da quella principale (dei serbatoi ambulanti pieni di frustrazione e di odio), sia da quanti, al malcontento provocato dalla condanna a vegetare lungo il margine, si é sommata, per la loro fede religiosa (peculiare dei musulmani), la proclività a considerare l”altro’ come un alieno quando non addirittura come un nemico.

Quasi sempre, nel parlare di colonialismo si parte col piede sbagliato e si finisce per ruzzolare fuori strada, giacché del film viene invariabilmente proiettata la prima parte, in bianco e nero, e scartata la seconda, in technicolor: quella in cui sono, ad esempio, i paesi arabi, forti delle loro immense rendite energetiche, a decidere per quanto tempo si debbano, da noi, tenere accesi i termosifoni durante l’inverno; che fanno man bassa di alberghi, di squadre di calcio, di industrie, di brevetti e di titoli di Stato; che, insomma, realizzano – a dispetto di tutti i sofismi accreditati dai notai del politicamente corretto – una spettacolosa palingenesi, non nel senso che certe pratiche sono cessate ma in quello che i soggetti attivi e passivi di tale fenomeno si sono spesso dati il cambio, come in questo caso, sul palcoscenico della Storia. Del resto, l’album di famiglia, per chi non é molto arzillo, propone l’istantanea – del ’73 – delle biciclette che tornavano a riprendersi la città, come sciami di storni inseguiti dalle avvisaglie gelide dell’inverno: c’era stato il conclave dell’OPEC, indetto dagli sceicchi per decidere come farla pagare all’Occidente per la vittoria di Israele nella guerra dello Yom Kippur, e la sentenza fu quella che gli avrebbero fatto provare i morsi dell’indigenza – dell”austerity’, per gli amanti dell’eufemismo – centellinando il petrolio. La rassegna delle foto scabrose continua con quella di Romiti che nel ’76 ( l’industria automobilistica era messa assai male) – annunciava l’ingresso, col 10 per cento, di Gheddafi nel CdA della FIAT: da dominatori a dominati, il passo fu breve, a riprova della perenne attualità di un vecchio adagio popolare – forse un pò grosso – secondo il quale si é invariabilmente gli uni o gli altri, e che le vie di mezzo sono solo una condizione transitoria.

Non bastano, allora, cinquanta sfumature, neppure al più raffinato dei pittori, per rendere l’idea di come l’uso di determinati termini, quali ‘imperialismo’ e ‘colonialismo’, risulti alterato e distorto dal filtro delle ideologie, che fanno passare la frenesia dei cinesi nel cercare le terre rare in Africa e nel precostituirvi degli approdi strategici per un’opera di beneficienza, e che enfatizzano – in relazione alle drammatiche vicissitudini di un Risorgimento abortito, per l’appunto quello africano – la storia dei Lumumba, dei Nyerere, dei Sankara, dei Mandela, sorvolando sul fatto che quella del continente é stata anche sporcata dall’emersione di figure orrende come Mobutu Sese Seko (‘il gallo che copre tutte le galline’, Amin il cannibale e Bokassa, l”Imperatore’.

Cosa c’entri con questa chilometrica digressione la parabola di Soumahoro da ‘povero nero’ a deputato della Repubblica italiana, è presto detto. Il secolo scorso é stato quello delle grandi abbuffate dottrinarie che si sono consumate intorno a concetti apparentemente semplici come Nazione e Stato. Trionfò la tendenza a creare un’omogeneità artificiosa, a concepire ogni minimo aspetto della vita pubblica come la riproduzione in miniatura di un frattale molto più grande. Non era contemplata la matematica osservanza di un principio morale quando questo disturbasse la preservazione e il rafforzamento del Sistema: così i piani quinquennali messi a punto dal PCUS che rimasero indifferenti all’estinzione dei kulaki e alla morte per fame di milioni di contadini nei villaggi dell’Ucraina.

Trascorsi quasi ottant’anni, il Pensiero Unico’ che innervava i regimi totalitari del ‘900 si é rifatto vivo da sotto le mentite spoglie di una falsa democrazia, ma, a differenza di allora, con lo Stato-Nazione che ha sconfinato nei territori dell’amarcord , esso si esprime attraverso l’esaltazione e la promozione di tutto ciò che comporti il rigetto della Tradizione e l’omologazione degli eccessi, la fuga dal centro, la frantumazione della società in tante piccole categorie in perenne conflitto tra di loro, tra le quali occorre giocoforza stabilire dove sta la vittima e dove l’oppressore: e ciò perché l’assenza di un progetto – che non sia quello ‘in fieri’ delle grandi multinazionali e delle grandi banche, di trasformare il mondo in un immenso supermercato – riduce la politica ad una serie di iniziative finalizzate alla raccolta dei voti e al dragaggio scientifico del consenso, cosa che si ottiene – é un tipico espediente di certa ‘Sinistra’ – compiendo, a parole, l’atto di mettersi coi più deboli, o, per meglio dire, con coloro che lo sono per convenzione, e ruspando a destra della virgola della platea elettorale, tra i disadattati e gli illusi.

E’ su questa strada che si sono incontrati Fratoianni, a caccia di un nero, e Soumahoro, che ne aveva tanti da portare in dote in cambio di un seggio. E si sono piaciuti. Fine.

 

Immagine: https://www.ilriformista.it/

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