Ho amato le canzoni di Giorgio Gaber e, successivamente, l’originalità e i contenuti del suo teatro. E ne approfitto per questi miei monologhi che sono tasselli della mia storia personale e, al contempo, mi vanto espressione di sentimenti emozioni di una generazione. Come Nietzsche – scusate la modestia del confronto! – che, affermava, di aver messo in ogni scritto qualcosa di sé. (Mi raccontava – simili a lupi in gabbia andando avanti e indietro nel cortiletto di Regina Coeli – il boss della mala milanese Francis Turatello come Giorgio Gaber avesse bazzicato ‘l’ambiente’, di essersene poi allontanato e, per questo, punito con il lancio di qualcosa di ‘consistente’ che l’aveva colpito in faccia scheggiandogli un dente).
Sulla banchina della stazione già in terra di Catalogna, ecco: ‘Così felice, col vento nei capelli, mi corri tra le braccia: non è solo un gioco è diventato amore a poco a poco’. Questa è la mia storia, ne ho scritto in Strade d’Europa, non vi tornerò sopra. Ad altri la loro. Era la stagione ove ognuno di noi ha costruito l’icona personale con il cuore e la mente, e questa icona s’è radicata carne sangue ossa e per sempre, comunque e nonostante tutto, breve o lungo sia stato il dono dell’incontro. Come nel Romeo e Giulietta di Shakespeare ‘chi mai amò che non abbia amato al primo sguardo?’ O, come cantano i Rammstein in Ohne Dich ‘ohne dich kann ich nicht sein’– imperdibile il video su Youtube.
Le canzoni, i monologhi soprattutto, quell’occupare la scena, la mimica e la chitarra e le ombre proiettate sugli spettatori e la risata e l’applauso immediato e l’obbligarti a pensare in un tempo ove sembra il pensare superfluo. Ri-flettere non rinnegare né rimpiangere, senza rancore o rivalsa vana. Rendersi consapevoli. ‘Sta sprofondando il mondo, ma io ti voglio dire che non è mai finita, che tutto quel che accade fa parte della vita’. È il 2001 e l’album propone alcuni dei suoi monologhi-canzone più noti, altri incisi per l’occasione, titolo La mia generazione ha perso. Perché ha ceduto al conformismo, alla carriera, ai dogmi della borghesia, dimentica di appartenere ‘a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita’, perché ‘molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare’. (Trattengo l’istinto di citare una mia poesia da Inattuale). I soliti soloni del ‘politicamente corretto’ l’accusarono di aver composto un album di ‘destra’. Un conservatore alla Giuseppe Prezzolini, forse; un libertario con un sano legittimo pessimismo. Un essere libero, meglio. Rimando, anche qui, a cercarsi video e testi. Ne vale la pena.
Una breve riflessione sul titolo. Ci fu una generazione che, tornata dalle intemperie della Grande Guerra, si sentì ‘mutilata’ nella vittoria, indossò la camicia nera e fece – si può discutere sulla sua compiutezza – una rivoluzione. Quella del ’68, a cui anch’io appartengo, no. E Gaber ha saputo con lucidità e malinconia tracciare tutti i segni della disfatta. E non mi consola pensare che forse è venuto il momento di mettersi da parte e s’è perso perché impietosa l’anagrafe dice ‘ora basta!’.
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