Arbeit macht frei

 

Arbeit macht frei

Se é fatto giustamente divieto di sorridere di fronte all’epigrafe in ferro ‘Arbeit macht Frei’ che sormonta il cancello d’ingresso del campo di Auschwitz, lasciato tale e quale dalle ore 8 del 27 gennaio 1945, cioé dal momento in cui venne attraversato dagli anfibi sporchi di fango delle avanguardie dell’Armata Rossa, la stessa proibizione dovrebbe valere per quanti fanno finta di niente a fronte di due articoli della vigente Cosituzione italiana, il primo e il quarto, che celebrano la centralità del lavoro eretto a fondamento della Repubblica.

Non inganni la differenza, solo nei dettagli, delle due cartoline. Lì l’apologia del lavoro, al quale si attribuiva una vocazione salvifica, nascondeva l’orrore dei massacri compiuti da una banda di macellai col diploma di ragioniere. Qui, il dettato costituzionale sopravvive sotto forma di un perizoma di carta, troppo stretto e troppo corto perché nasconda la tragedia della disoccupazione dilagante e distolga gli osservatori meno compromessi con le logiche del mainstream dal tentativo di giustificarla risalendo alle leggi dell’economia e del Mercato. Intanto perché la Politica, con l’iniziale maiuscola, nasce come sperimentazione di formule atte a contenere l’incidenza del potere economico sulle dinamiche sociali: e i livelli occupazionali rientrano comunque nella combinazione algebrica fatta di parentesi tonde, quadre e graffe con cui si confronta chiunque abbia in mano le redini di una comunità o di un Paese. Poi, perché, nello specifico, la rarefazione dei posti di lavoro si é aggravata quando l’UE, asservita al capitale cosmopolita, ha conferito al ‘fiscal compact’, cioè al pareggio di bilancio, una rilevanza totemica, ordinando, a pena dello scatenamento della Troika, a tutti i Paesi membri di ridurre drasticamente la spesa pubblica: in parole povere, di risparmiare sulle assunzioni e sullo stipendio del personale nei servizi essenziali, come la Scuola, la Sanità, la Sicurezza, dando contemporaneamente libero sfogo in questi settori all’iniziativa privata, e di procrastinare ‘sine die’ l’età pensionabile, un altro macigno sulla strada dell’occupazione dei giovani, il loro futuro appeso ad un biglietto del ‘Gratta e vinci’.

La caduta del muro di Berlino e la comparsa al largo di Civitavecchia del panfilo ‘Britannia’, nel 1992, assumono una forte valenza simbolica. Nel primo caso, per aver segnato il confine tra il vecchio ordine mondiale, dominato dall’idea che il progresso – anche quello economico – fosse una conquista delle masse, e il nuovo, detto NWO, che riportava tale idea all’interno della dimensione individuale, lo stazzo verso cui sarebbe stato dirottato il ragionamento sui diritti, con l’unico scopo di sottrarli alla tutela da parte dello Stato. Nel secondo caso, si dette avvio, in Italia, alla svendita sui mercati internazionali del nostro patrimonio pubblico, con la benedizione dei vari Prodi (il liquidatore dell’IRI), D’Alema (l’aedo della precarietà) e Scalfari (quello convinto che il Mercato, con i suoi poteri magici, avrebbe fatto quadrare tutti i conti e avrebbe contribuito addirittura al mantenimento della democrazia in Italia).

E’ difficile, specie per uno come me che non ne sa molto di economia, individuare, lungo i due assi, quello diacronico e quello sincronico, le correlazioni tra gli episodi che hanno messo all’angolo il lavoro, ma lo é ancora di più l’impresa di descriverli in modo conseguenziale. L’acquisizione di asset importanti da parte degli speculatori stranieri é stata, al di là di ogni dubbio, determinante nel provocare il letargo dei sindacati e nel decretare, su iniziativa dei vari Renzi e Fornero, la soppressione dell’articolo 18, pietra angolare dello Statuto dei lavoratori, che é finito nel retrobottega del rigattiere, ma si commetterebbe un grave errore se si volesse legare la crisi del mondo del lavoro alle turbolenze di un periodo relativamente breve, come quello compreso grosso modo tra la fine degli anni ’80 e il giorno d’oggi, e se si sottovalutassero i suoi possibili sviluppi, che hanno una gittata epocale.

E’ oltremodo evidente che anche quando la platea del lavoro subordinato fosse corrosa dalle nuove tecnologie fin tanto da diventare un microscopico fazzoletto , la soluzione del problema non sarebbe né un rigurgito di luddismo, né un’olimpica presa d’atto. Il problema – checché ne dica la Meloni col negare che lo Stato generi occupazione (cosa che, infattti, non succede quando esso si rattrappisce per farsi sostituire dai privati) scaturisce dalle modalità con cui viene praticata l’economia di un Paese, ma sconfina con piena legittimità, parodiando Levi, nel cerchio satinato delle dissertazioni filosofiche su cosa sia un uomo e su cosa lo trasformi in un animale sociale, capace di costruire intorno a sé un alveare.

L”homo faber’ arriva prima dell’uomo vitruviano disegnato da Leonardo, ma lo interseca nella prospettiva che la funzione di mastice assolta dal lavoro all’interno di ogni comunità implichi anche quella di smussare le diseguaglianze e di favorire, con la partecipazione di tutti i suoi membri, l’avvento di una vera democrazia: l’esatto contrario di una linea di tendenza, concepita e avallata ormai da diversi anni dagli stagisti di Davos, che attribuisce al lavoro la qualità di una fattispecie eventuale, caratterizzata per di più dal crisma della precarietà (che introduce stabilmente il ricatto – dei padroni – nel rapporto coi dipendenti) e da quello della saltuarietà (che rende di fatto aleatorio ogni menomo tentativo di ripristinare almeno la brutta copia dello Statuto del 1970).

Non è dunque un caso che in questo mondo fortemente globalizzato lo spostamento d’aria prodotto dall’ecatombe degli schiavi – più di seimilacinquecento – impiegati nella costruzione degli stadi qatarioti per i mondiali di calcio, sia giunto sino a noi sotto forma di un flebile alito di vento, l’equivalente di un piccolo rumore emesso da una galassia lontana, proprio qui, dove ci ha fatto piangere la tragedia di Marcinelle e dove, da ragazzi, ci si chiedeva se fosse lecito esternare ammirazione per le piramidi costruite su di una montagna di cadaveri.

Tutti questi elementi, a parer mio, forniscono la prova di come i think tank delle elite mondialiste siano riusciti, spostando di qualche centimetro la ‘finestra di Overton’, non solo a modificare l’opinione pubblica relativamente alla sostenibilità morale delle imprese che fanno morire come mosche i lavoratori, ma anche a manipolarla in modo da farle accettare la disoccupazione come una specie di evento naturale, e non già come l’effetto di una scelta politica precisa, compiuta da soggetti sulla cui attitudine a rifuggire dagli allucinogeni e a controllare la traiettoria delle proprie iniziative si possono nutrire dei dubbi. Già, perché l’uomo che non lavora o che fa, suo malgrado, il surf sull’onda della precarietà, é uno che non ha soldi da spendere e quindi non partecipa alla sagra del consumismo. E’ un uomo che si ammala facilmente e che finisce col gravare sui bilanci disastrati del SSN. Senza contare che s’incazza spesso e porta il proprio nervosismo a spasso, come un cagnolino, anche al di fuori della famiglia; che non può comprarsi una casa, né mettere al mondo dei figli per la paura che essi incontrino il suo stesso destino, la prefigurazione in carne ed ossa del ‘Grand Reset’.

Si può e si deve fare precipitosamente marcia indietro, ma occorre che la questione del lavoro – il passaggio obbligato di qualunque progetto politico – venga affrontata da un cartello di intelligenze, le più disparate, dal sociologo, al filosofo, agli ingegneri, e che, intanto, qualcuno s’improvvisi mossiere, capitando magari dalle parti di Davos o di altri posti in cui abitualmente si riunisce la ‘cupola’: quello sparo, secco, senza il quale non inizia o non si ferma una corsa.

 

Immagine: https://www.ilprimatonazionale.it/

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