Se oggi fosse il 14 luglio del 1789, la gente non si muoverebbe verso la Bastiglia (ci sono troppe carceri e troppe persone innocenti che aspettano, al gabbio, di essere scrutinate da una magistratura catatonica), ma si dirigerebbe – l’odore acre delle masserizie bruciate e i reparti antisommossa schierati con le armi al piede sui marciapiedi di Viale Mazzini – verso la sede centrale della RAI, con la saggia intenzione di buttarne di sotto i dirigenti che hanno architettato Sanremo.
Non ho idea di quante persone abbiano assistito, abbagliate dal chiarore azzurro del piccolo schermo, alla simulazione dell’amplesso da dietro fra due maschi (per modo di dire), e ai tanti baci sulla bocca che si sono scambiati nella più totale promiscuità, nel catino scintillante dell”Ariston’, tutte le declinazioni della galassia LGBTQ, alla quale, a detta di qualcuno solitamente bene informato, si aggiungeranno tra non molto anche i cani di compagnia di grossa taglia e i cavalli da tiro, quelli tosti: alla prossima, del prossimo anno.
Qualcuno ha osservato che le edizioni che verranno saranno vietate ai minori. Aggiungo: alle persone la cui cilindrata mentale non sia quella di una vecchia ‘Trabant’, pronta per andare allo sfascio, e che non abbia alcuna voglia di farsi tacciare di razzismo da una pallavolista nera che, quanto ad ipocrisia e a disonestà intellettuale, se la batte alla grande con Sumahoro. Alla faccia degli Italiani che fanno lievitare lo share, ma anche di quelli che si sono rotti le scatole del monopolio esercitato sul servizio pubblico televisivo dai nani e dalle ballerine targate PD e che rappresentano il Pensiero Unico nelle sue forme più abiette: ragion per cui fanno altre cose piuttosto che offrirsi inermi agli occhi spiritati di un Amadeus, oppure non hanno nemmeno il televisore, sebbene siano stati tutti condannati a pagare il canone, cioé costretti a finanziare lo strumento più importante della propaganda di questo regime, che é cosa molto più illiberale, a pensarci bene, dei filtri sulla stampa e sulle opere dell’ingegno imposte durante il Ventennio dal MinCulPop, o di tutti i sorrisi durbans sfoggiati illo tempore dalle contadinelle romene nel marciare impettite, in fila per quattro, col resto di due, sotto il palco di Ceausescu.
Qualche articolo fa esortavo a meditare sulle analogie tra quest’epoca e il ‘600. Lì, l’assenza di vasi comunicanti tra le classi sociali sortiva una rigida demarcazione tra la nobiltà, che si poteva permettere il lusso di nascondere i soldi nella cuccia del cane, e la maggior parte delle persone che faceva una vita, essa sì, da cane, vessata dalle tasse, minacciata dalla carestia, insidiata dalle epidemie, mangiatori di patate anche a colazione, come in una tela del Van Gogh.
Poco é cambiato da allora, se alla rarefazione delle idee – provocata dalle intemperanze del Pensiero Unico e dalla sua nefasta inclinazione a far fuori, con le buone o con le cattive, chiunque osi osteggiarlo – fa da pendant, per un naturale processo di compensazione, l’ipertrofia della forma, che diventa nuvole di cipria, fronzolo, arabesco, isteria. Non ho capito bene le ragioni per le quali il presidente della Repubblica abbia voluto emulare la bella olandesina con l’affacciarsi, immenso, nella sua straripante canizie, dal loggione dell’Ariston, né, ancor meno, quelle di chi aveva già deciso, in mezzo a tanta merda, di infilare l’inno nazionale, se non aveva lo scopo di declassarlo a futile canzonetta.
Ho più volte sottolineato su queste pagine – senza peraltro avere dalla mia parte la radiosa magnificenza di un Chomsky o di un McLuhan – come la TV abbia finito con la sua pervasività a generare nel pubblico una sorta di allegra rassegnazione agli eventi e a fargli ignorare la differenza che corre tra l’intrattenimento, per il quale si paga un biglietto – perché fanno tutto loro e tu ti limiti ad assistere – e l’agone politico, che richiede partecipazione, ancorché si sviluppi attraverso tutti i filtri e i check point installati lungo il percorso dagli ingegneri dell’ordinamento democratico.
I dati sull’affluenza delle elezioni regionali svoltesi tre giorni fa, in Lombardia e nel Lazio, descrivono però un Paese in cui si sta in due su dieci col televisore spento, per non dover sentire i guaiti di Zelensky e per non lasciarsi schiaffeggiare, legati alla poltrona, da una signorina nera, e si é, per contro, in quattro su dieci, disposti ad esercitare il proprio diritto al voto, in una democrazia, alla quale, con tutta evidenza, non crede quasi più nessuno, perché si misura in pollici, per quanta ne può contenere, tra un programma sul primo canale e un altro programma sul sesto, un apparecchio televisivo.
Anche questo concetto, di seconda mano, proviene da un mio vecchio articolo. Non é un caso e non é privo di giustificazioni remote il fatto che, nell’obbedire tutti insieme ad un riflesso condizionato, tutti i partiti dell’arco costituzionale, decisero verso la fine degli anni ’80, di rinunciare al mantenimento delle proprie sezioni sparse sul territorio – quelle che assicuravano ai mestieranti della politica un utile scambio di umori con la comunità degli iscritti e dei cittadini – e di ritrarsi in se stessi dopo aver chiuso gli oblò e i boccaporti, insofferenti del contatto col suolo, come tanti dischi volanti.
E’ probabile che questa scelta, ispirata dai poteri forti domiciliati in latitudini diverse dalla nostra, abbia favorito, all’interno dei partiti, la tendenza a condividere gli onori (molti) e gli oneri (pochi) con i consanguinei e coi parenti, mogli, mariti, figli e cognati, un po’ ciò che succede nel mondo dello spettacolo, che si é ormai così a fondo compenetrato in quello della politica da divenirne parte integrante, come il tema e la desinenza di ogni parola, a turno, una volta l’uno e una volta l’altra.
Forse suggestionato dalle limpide intuizioni di un certo Giorgio Gaber, al quale tardivamente riconosco il merito di aver visto molto più lontano della punta del naso e di aver mutuato con la Fallaci il destino, da appestato, riservato in questo stramaledetto Paese ai discendenti di Cassandra, l’immagine dei partiti che mi sovviene più di frequente é quella di un insetto a cui una mantide – la tecnocrazia trionfante – abbia con la cannuccia asportato tutte le interiora, lasciandoli come appaiono, degli involucri vuoti: o quella di associazioni private che, con la scusa della democrazia rappresentativa, fanno in realtà del marketing elettorale cercando di prendere più voti possibile con delle false promesse (una tecnica imparata andando a lezione da Wanna Marchi) salvo , poi, recidere, nell’intervallo compreso tra due elezioni, ogni menomo rapporto con la massa che li ha votati e convertire – con un’operazione automatica di cambio, spiccioli contro dollari – il suo consenso in quello dei Poteri Forti da cui, felicemente succubi ed infeudati, ricevono le consegne.
Non é certo impresa da poco stabilire se suscitino maggiore allarme quei 12 milioni di italioti che si sono fatti avvolgere dalla volgarità di Sanremo o il 60 per cento degli elettori che ha disertato le urne. Con tutta probabilità le due facce appartengono alla stessa medaglia, quella di un Paese allo sbando e di una democrazia dalla quale la maggioranza dei cittadini si é ormai già smarcata perché la politica non é più pedagogia e indirizzo, ma é un’altra cosa in cerca di un nome, come, fra l’altro, dimostra l’introduzione in quest’ultima tornata dell’obbligo di dare il voto, in caso di doppia preferenza, ad un uomo e ad una donna: il riflesso sghembo di una perversione ideologica, l’interpretazione creativa delle leggi dell’insiemistica, una buona ragione – se non ce ne fossero anche mille altre – per dare forfait al rito delle elezioni, gravato da tanta insipienza.
Fallimento, suona bene. E anche vuoto e voragine. Intorno ai quali non spuntano i putti placidi del Mantegna. Il vuoto in politica non esiste, non é concepibile, e fa paura: soprattutto al legislatore italiano che, visto l’andazzo, sarebbe tenuto a fissare una soglia al di sopra della quale l’assenteismo produrrebbe l’annullamento della consultazione elettorale, ma si guarda bene dal farlo perché avverte il rischio di dare così pubblica attestazione dell’agonia del Sistema.
L’inammissibilità del vuoto che la politica condivide con la Natura, implica, tuttavia, due possibili sbocchi: uno é la mobilitazione popolare (guidata da un cartello di probiviri), l’altro é la libera uscita dalle caserme. Tertium datur, le due cose che stanno insieme. Preghiamo.
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