Molti anni fa rimasi basito nel constatare come fossero numerosi i giovani rappresentanti del vecchio MSI nella platea del teatro che ospitava il ‘Maurizio Costanzo Show’: l’idea di un innesto temerario, di animali che erano stati portati in un luogo per loro estraneo allo scopo di ripopolarlo, l’indugio delle piccole bestie che assaggiavano l’aria prima di lanciarsi giù dal camion per celebrare un’inattesa libertà. C’erano La Russa e Gasparri, che io ricordi, ma di ‘temerario’ nel togliere i lucchetti alle stie che avevano sin lì ospitato i nostalgici del fascismo, non c’era assolutamente nulla.
Non mi sovviene la data in cui ebbe luogo quella puntata, sicché gli eventi mi appaiono schiacciati l’uno sull’altro e avverto la fastidiosa sensazione di richiamarli alla memoria come attraverso dei mattoni di vetro, ma quelli erano i tempi in cui la Prima Repubblica, colpita dal fortunale giudiziario, si accratocciava su se stessa, e dai laboratori ‘off limits’ di qualche cupola di livello internazionale veniva impartito a Berlusconi l’ordine di allestire ‘Forza Italia: tutto ciò mentre i comunisti uscivano dallo spogliatoio, dove si erano ritirati per tentare di fare il verso a Leopoldo Fregoli, inopinatamente senza il logo della falce e martello, ma avvolti in un immenso striscione arobaleno, tutti quanti i colori – come nella pubblicità dei Benetton – per non dover ammettere di non averne più alcuno.
Non si poteva, infatti, pensare che la creatura di Berlusconi fosse capace di stravincere il confronto coi reprobi del PCI senza l’ausilio di una stampella, e gli fu dato Fini, giusto per completare -immagino, mediante delle sofisticate tecniche persuasive, quelle che hanno sempre funzionato per secoli e per millenni – l’orgia del trasformismo. La gente, circuita dai media controllati dalle oligarchie, piange – la lacrima facile – per l’impresario televisivo, ma non ne coglie il lato oscuro, dell’uomo che aveva messo a disposizione dei poteri occulti – leggi P2 – il mondo dello spettacolo non solo per esibire i ‘fascisti’ che erano stati consegnati al chirurgo per farli gorgheggiare alla maniera di Farinelli, ma anche per mostrare al pubblico il giudice Falcone, travestito da San Sebastiano, nel corso della ‘maratona contro la Mafia’ che allestì nell 1991, con la festosa partecipazione di Leoluca Orlando, di Galasso e di Totò Cuffaro, a pochi mesi dalla carneficina di Capaci.
Neppure quelle quattro righe risicate che usava scrivere ogni giorno per la prima pagina de ‘Il Messaggero’ – l’equivalente del ‘pensierino della sera’ allegato ai Baci Perugina o di un’oliva ascolana al pranzo di nozze – possono redimere il caro estinto dal forte sospetto di aver trascinato, obbedendo a degli impulsi subliminali, o a qualcosa di assai più sostanzioso, il popolo italiano (che era, come nella nota filastrocca, un popolo di navigatori, di poeti e di santi) come legato ed imbavagliato davanti al piccolo schermo, e di averlo trasformato, con l’aiuto decisivo della sua ultima moglie, in un’oscena accolita di guardoni.
Del tutto conforme, quindi, all’entità dei fatti che hanno scatenato, al di là della cerchia ristretta dei miracolati e dei parenti, un ingiustificato cordoglio, é l’estremo saluto rivoltogli dai fratelli di loggia che si sono assiepati, agitando i fazzoletti, lungo la panchina del porto da cui si parte per l”Oriente Eterno’, benché lui, ottemperando agli usi e ai costumi tipici della setta, li abbia regolarmente rinnegati.
Apro qui, per più di una riga, un inciso che apparentemente non c’entra niente. Nel breve prologo della rivoluzione fascista, Mussolini, per tanquillizzare la Corona che era per la conservazione del palinsesto sociale e per attrarre su di sé il consenso della classe padronale che affollava le logge, fece intendere che quando fosse arrivato al potere – dove, peraltro, annunciava, mentendo, che sarebbe giunto quasi solo per questo scopo – l’avrebbe fatta finita con lo ‘Stato ferroviere e con lo Stato postino’ e si sarebbe eretto a tutore dei diriti inviolabili del Mercato. Senonché, nel biennio successivo alla marcia su Roma, il ‘duce’ lavorò sottotraccia per coinvolgere i socialisti nel governo del Paese (é a tale riguardo di estrema inportanza soto il profilo documentale la corrispondenza segreta intercorsa tra Curzio Sukert, su mandato di Mussolini, ed Alceste De ambris): una soluzione che spaventava il Re ed isolava i comunisti, per scongiurare la quale – a dispetto dell’origine preterintenzionale del delitto Matteotti sostenuta con argomentazioni speciose da un docente universitario poco portato per la ricerca, e di quella squisitamente ‘fascista’ per cui si è sempre battuto, con le armi spuntate, un altro emerito professore proveniente dalle tretrovie del vecchio PCI – se ne adottò una ancora più radicale, che consistè – il linguaggio allegorico, proprio di certe lugubri conventicole – nel gettare il cadavere del PSU tra i piedi del presidente del Consiglio allo scopo di ‘farlo barcollare e cadere’ , senza che riuscissero nell’intento. Il movente affaristico, sul quale insisto nei tre libri che ho dedicato a questo delitto e che é direttamente collegato alla decisione del ‘duce’ di eliminare il vassallaggio petrolifero del Paese verso gli Inglesi, col senno di poi – corroborato da tutti gli anni passati a bagnomaria nelle carte- ha perso qualche posizione rispetto a quello politico, che gli fa, con maggiore evidenza che nel passato, da antefatto e da sfondo.
Il fascismo ha rappresentato, insomma, l’unico caso, almeno qui in Italia, in cui una vicenda politica, iniziata sotto gli auspici dei poteri occulti, si sia sviluppata in una direzione diversa da quella che essi avevano preventivato, e ciò potrebbe anche bastare come spiegazione del fatto che, passato quasi in secolo dal ’45, la classe dominante che si fa scudo dell’ordinamento democratico – una scatola vuota – abbia imposto la ‘damnatio memoriae’ a qualunque espressione del regime mussoliniano e ne abbia completato la sepoltuta, a vari metri di profondità, associando surrettizziamente l’aggettivo ‘fascista’ alle situazioni che, per il comune sentire, suonano sconvenienti, l’intossicazione che arriva fin dentro il cuore delle parole.
Fu Fini – la kiffah poggiata sulla sommità del capo – ad usare per il fascismo l’etichetta del ‘Male Assoluto’, una delle sue prime prove d’insipienza a rimorchio di Berlusconi, perché, tranne che non ricorra per dei regimi abbinati a dei pazzi, come Amin o Pol Pot, nessuna formula politica può considerarsi assolutamente ‘buona’ e, per converso, assolutamente ‘cattiva’, neppure quella in cui fosse messa al bando la morte , per l’ostilità dei becchini.
Anche il liquidatore del MSI fu tenuto a battesimo da Costanzo. Ciò che allora non parve subito chiaro era che ad entrare nella stanza dei bottoni, per una sorta di automatismo (l’idiosincrasia al vuoto di ogni singolo aspetto della natura e della condizione umana) non era la Destra sociale che andava ad occupare i territori lasciati liberi dalla dissoluzione della Democrazia Cristiana, ma un’altra ‘cosa’, non dissimile dal defilé degli alberi fronzuti – la quercia prima dell’ulivo – che ebbe luogo quando il PCI, già snaturato dall’eurocomunismo di Berlinguer, sparì come d’incanto nel polverone nero sollevato dal crollo del muro di Berlino, il vero discrimine tra due grandi epoche, al pari del Natale e del’annus domini della scoperta dell’America.
Deve esserci in qualche archivio, presumibilmente di Londra o di una fondazione statunitense, un documento che riveli il nome, pleonaticamente suggestivo, come ‘Locusta’ e ‘Proteo’, dell’operazione concepita dalla mafia internazionale per abbattere la Prima Repubblica, che esprimeva un tasso di statalismo e di patriottismo eccessivamente elevato per gli standards del Mercato, e per mettere al posto suo un regime in cui l’antifascismo in assenza di fascismo, millantato dai continuatori spergiuri del PCI, e l’anticomunismo in assenza di comunisti, dichiarato dal tandem Berlusconi/Fini, fungessero da diversivo per un popolo e per un Paese ai quali veniva invece somministrato il menu fisso del Patto Atlantico e della sottomissione all’Europa, una dittatura spietata che s’intravede facilmente, avendoci gli occhi, da sotto l’artificio delle consultazioni elettorali, tali e quali al sonaglio con cui si é soliti ottenere una tregua dall’infante che piange.
I media, addomesticati da gente come Berlusconi e pilotati da altra gente, come Costanzo e consorte, (niente più che dei serventi al pezzo, ma straordinariamente efficaci) hanno favorito la decantazione dell’Italia- il più grande concentrato di cultura dell’Occidente – dallo stato di sovranità limitata, a causa della quale sono morti i Moro e i Mattei, a quello di assenza avanzata di sovranità, che miete le sue vittime in maniera indiscriminata, tra gli elementi più deboli della società civile, e ciò é successo perché hanno costretto milioni di italiani ad interessarsi, sin da piccoli, di quisquilie e di pinzillacchere, ad occuparsi di politica solo quando essa fosse – e sia – fruibile sotto forma di intrattenimento e di spettacolo, vale a dire come roba loro.
Tra i pochi che sono andati a votare a settembre (sembra, cavolo, che sia passata un’eternità), in molti, raschiando il fondo del barile alla ricerca dell’ultima molecola di ottimismo, si sono pronunciati per la rottura, e si sono ritrovati la Meloni che, per prima cosa, ha riaffermato l’inderogabilità della NATO, per seconda ha smesso subito di pensare al problema dell’immigrazione clandestina, e, per terza, é piombata a Kiev per assicurare alle imprese italiane un ruolo di riguardo nella ricostruzione dell’Ucraina, che é grande due volte l’Italia, tutto questo mentre gli abitanti di Amatrice giacciono ancora nelle baracche: una lunga serie di opere e di omissioni, che é, come da copione, giustificata dalla Meloni,col solito ritornello delle cause di forza maggiore (a lei note molto prima che salisse a palazzo Chigi), ma anche la riprova – ove ce ne fosse stato bisogno – dell’ambidestrismo del Sistema, che é fondamentalmente indifferente al teatrino deli opposti estremismi riportato in auge dopo i fasti del ‘900, e del fatto che quella del ‘voto’, da qualsiasi parte gli venga dato, o negato, é una liturgia creata e perfezionata apposta per rafforzarlo.
Costanzo – potrebbe essere l’obiezione da parte di chi usa andare troppo di fretta nel leggere – si perde nella tenebrosa vastità di tale scenario come un moscerino che é affogato nel bacile del latte, o addirittura non gli appatiene, ma sarebbe sin troppo facile controbattere che una certa televisione, utilizzata per diffondere il surrogato del nulla e per impedire alla gente di sentirsi pienamente partecipe della ‘Res publica’, era, ed é, organica ai disegni dei nemici della democrazia reale e dell’indipendenza del Paese. C’é dunque, quasi una parvenza di contrappasso nella scena del selfie con cui la sora Maria si lascia ritrarre, sullo sfondo del feretro del marito, in compagnia di una bambina ignorante, quella che rappresenta simbolicamente tutte le bambine, alcune assai cresciutelle, che se la sono introiettata in ‘C’é posta per te’, il programma degli imbecilli guardoni, (il sostantivo e l’aggettivo sono intercambiabili, é una gentile concessione dell’autore), ma vi sta dentro benissimo, per quanto sia irrimediabilmente banale, anche il motto popolare secondo cui quel che si raccoglie é, né più né meno, quel che si é seminato.
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