8 marzo – due donne dimenticate
8 marzo, come ogni anno si svolge la “Festa della donna”, anche se sarebbe più corretto definirla “Giornata internazionale della donna”, poiché la motivazione alla base della ricorrenza non dovrebbe essere una festività, ma una riflessione sulle conquiste sociali, e politiche conseguite. L’idea di celebrare una giornata della donna, nasce negli Stati Uniti nel 1909 anno in cui le donne iniziarono a manifestare per rivendicare il diritto al voto. L’anno seguente, nel 1910, la proposta fu rilanciata dall’attivista tedesca Clara Zetkin durante la conferenza internazionale delle donne socialiste a Copenaghen. Il giorno 8 Marzo viene scelto per ricordare la manifestazione contro lo zarismo delle donne di San Pietroburgo avvenuta nel 1917.
In Italia il suffragio universale fu introdotto per la prima volta da Gabriele D’Annunzio nel 1920, durante la Reggenza italiana del Carnaro. Fu il Fascismo che concesse (in via teorica) per primo il suffragio femminile nel 1925, seppur limitato alle sole elezioni amministrative, (che però verranno abolite l’anno successivo rendendo la norma inutilizzata). Per un vero e proprio suffragio universale si dovrà aspettare la fine della seconda guerra mondiale, dove il decreto legislativo luogotenenziale del febbraio 1945, permetterà alle donne di partecipare alle elezioni amministrative del marzo 1946, ed al referendum istituzionale che sancì la nascita della Repubblica italiana.
Come ogni anno stampa e giornali in questa data ricordano donne del mondo politico, scientifico, ed artistico, che con il loro vissuto possano essere di esempio alle nuove generazioni. Anche io quest’anno ho deciso di non esimermi dal rituale, ricordando due grandi “Dive” del nostro Cinema, dimenticate, per le loro scelte di vita.
Verso la fine della parabola rivoluzionaria che fu la Repubblica Sociale Italiana, gli ultimi fascisti rimasti fedeli a Mussolini, tentarono una fuga verso la Valtellina, tra la Lombardia e la Svizzera, su un “ramo del lago di Como” di Manzoniana Memoria, si incrociarono per pochi giorni le esistenze di due grandi Dive e donne: Doris Duranti e Luisa Farida.
Doris Duranti, pseudonimo di Dora Durante, nacque a Livorno il 25 aprile 1917, in una famiglia benestante, diversamente assortita, il padre è un anarchico con lontanissime ascendenze Ebraiche, la madre fervente cattolica che insiste per farla studiare dalle suore, e un fratello più grande di lei di vent’anni, che alla morte del padre si occupa della sua educazione facendola iscrivere a Magistero. Dora è una bellissima ragazza bruna e sensuale, che ama il cinema e il teatro. Mentre odia il mondo borghese e le sue convenzioni. Sogna una vita da modella e da attrice. Quando Josephine Baker si esibì in teatro a Livorno, rubò i soldi alla madre per assistere al suo spettacolo. Con l’aiuto del cugino Lorenzo, che viveva a Roma, Inviò le proprie foto a Cinecittà, dove venne chiamata per un provino. Scappò di casa dopo aver rubato di nuovo i soldi, questa volta ad una anziana zia, ed iniziò a lavorare con piccoli ruoli in “L’urlo” (1934) di Corrado D’Errico, “La gondola delle chimere” (1936) di Augusto Genina e “Vivere” (1937) di Guido Brignone. Sempre con Genina, lavorò nel film Lo squadrone bianco (1936), girato in Libia.
Si specializza in ruoli di donna fatale, come la Lola di “Cavalleria rusticana” di Palermi (1939), e Sentinelle in bronzo di Marcellini (1937). Doris, chiamata “l’Orchidea Nera”, guadagna due milioni di lire a film, una cifra assolutamente considerevole. A Roma inizia a frequentare il salotto di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, e livornese come lei, qui consolida il rapporto con Alessandro Pavolini che aveva conosciuto a Livorno durante la lavorazione de “Il re si diverte”, nel quale girò la famosa scena della danza dei sette veli, per i tempi ritenuta parecchio spinta, scatenando le ire del clero. I due cominciano a frequentarsi, si incontrano tutte le sere a casa di Doris, sul Lungotevere Flaminio, per passare le notti insieme. Benito Mussolini è preoccupato per questo amore irregolare del suo responsabile della cultura, per questo chiede a Pavolini di troncare la relazione. “Farei qualsiasi cosa per non rinunciare a lei”, risponde il gerarca. Il duce non insistè, anche perché lui stesso affascinato dalla bellezza della Duranti. L’amore tra Doris Duranti e Pavolini se non altro aiuta a far passare in censura certi film un po’spinti interpretati dall’ attrice. Dopo l’8 settembre, Pavolini come nuovo segretario del partito fascista prende possesso di Roma a nome della Repubblica Sociale. Quando gli “alleati” iniziano a risalire la penisola, Pavolini e la Duranti si spostano al Nord, prima a Venezia, dove il governo fascista tenta di far rinascere il cinema, quindi a Milano. Sarà al fianco del suo uomo durante la fuga verso la Svizzera, insieme alla coppia di attori Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Ad un certo punto i 4 si dividono, Doris grazie al contributo di uno zio prende contatto con un amico Svizzero che dovrebbe organizzargli la fuga. Quattro giorni dopo Mussolini e Pavolini cadono nelle mani dei partigiani. Fucilati senza processo, verranno appesi per i piedi a piazzale Loreto di Milano insieme ad altri gerarchi e a Claretta Petacci, stuprata e uccisa per l’unica colpa di amare come Doris, il proprio uomo. Disperata Doris cercherà di tagliarsi le vene, viene ricoverata nella clinica svizzera di Moncucco, un infermiere la riconosce come la famosa attrice italiana. Ripresasi, la polizia svizzera l’arresta e si prepara a farla espatriare. Parrebbe di dover fare la fine di Claretta, ma la sua bellezza e sensualità colpiscono ancora, il capitano della polizia svizzera, Luciano Pagani, si innamora perdutamente di lei, e nel giro di pochi giorni la sposa, facendola diventare cittadina svizzera di fatto impedendone l’estradizione. Doris non ama il Marito e nemmeno quel paese che definisce “tutto formaggi e orologi”. Il matrimonio dura poco più di un anno. Quando chiede il Divorzio (legale in svizzera dal 1907), Pagani non vorrebbe concederlo, ma Doris lo liquida con una frase ad effetto: “Tu nel 1945 mi hai salvato la vita, ma io ho pagato la mia testa con un’altra cosa. Uno come te non avrebbe mai potuto sperare di portare a letto Doris Duranti”. Ottenuta l’agognata firma fuggirà in America Latina, dove nei primi anni cinquanta avrà una breve relazione con il famoso giornalista Rai Mario Ferretti, (ex speaker di “Soldaten Radio”, la radio finanziata dai tedeschi), nel dopoguerra riammesso alla professione grazie all’amnistia Togliatti, e recircolatosi come radiocronista sportivo. La troviamo in Argentina, Venezuela, Cuba e infine a Santo Domingo, dove si stabilisce definitamente, protetta dal: “Generalísimo y Benefactor del Pueblo” (generalissimo e benefattore del popolo), Rafael Leónidas Trujillo Molina Presidente della Repubblica Dominicana dal 1930 sino al proprio omicidio avvenuto il 30 maggio 1961. L’Orchidea Nera, tornerà raramente nel nostro paese, in una delle sue ultime interviste, sostiene che l’Italia è troppo cambiata e che lei non ce la farebbe più a vivere in un paese così diverso da come l’aveva lasciato. Si spengerà nel sole dei Tropici il 10 marzo 1995 all’età di 77 anni, senza mai rinnegare le sue idee ed il suo amore per Alessandro Pavolini. All’altra Diva, incontrata nella fuga verso le alpi purtroppo la sorte riserverà un ben più tremendo destino.
Luisa Ferida, pseudonimo di Luisa Manfrini Farnet, nacque a Castel San Pietro dell’Emilia (oggi Castel San Pietro Terme) comune italiano della città metropolitana di Bologna il 18 marzo 1914.
Fu una delle più note attrici del cinema italiano nel decennio 1935-1945 e fu la protagonista più pagata, (anche di più della Duranti). Iniziò la sua professione in teatro con la compagnia di Paola Borboni, esordì sul grande schermo con il film “Freccia d’oro” del (1935) di Corrado D’Errico. Si mise in evidenza interpretando numerosi film di registi minori, ma che le dettero un’inusitata visibilità. Fra il 1937 e il 1938 costituì una coppia cinematografica di successo con Amedeo Nazzari, col quale interpretò “La fossa degli angeli”, “I fratelli Castiglioni” e “Il conte di Bréchard”. Venne richiesta da Alessandro Blasetti che la volle come protagonista del film “Un’avventura di Salvator Rosa (1939), che la proiettò verso un orizzonte divistico di rilievo. Qui incontrò l’amore della sua vita il collega attore Osvaldo Valenti al quale l’artista si legò sentimentalmente. Vanno ricordate le sue interpretazioni nei film “La corona di ferro” (1941) di Alessandro Blasetti, “Fedora” (1942) di Camillo Mastrocinque, “Animali pazzi” (1939) di Carlo Ludovico Bragaglia, dove recita accanto a Totò, e “Fari nella nebbia” (1942) di Gianni Franciolini, per il quale fu premiata come miglior attrice italiana del 1942. Durante il regime ne Valenti ne Ferida si erano mai occupati di politica, (non risulta nemmeno un’iscrizione formale al PNF). A seguito dell’armistizio, tuttavia furono fra i pochi divi del cinema ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Lasciarono Cinecittà per trasferirsi al Cinevillaggio, il nuovo centro cinematografico della R.S.I. di Venezia, sorto per volere del ministro Ferdinando Mezzasoma, diventandone due dei più noti esponenti. Qui, girarono ” Fatto di cronaca (1944), di Piero Ballerini. Durante la convivenza, nel 1942 l’attrice partorì il primogenito Kim Valenti, che morì per l’insorgere di problemi respiratori dopo soli cinque giorni. Nella primavera del 1944, i due si spostarono a Milano, dopo che Valenti era entrato col grado di tenente nella Xª Flottiglia MAS del principe Junio Valerio Borghese. Nei giorni immediatamente successivi alla caduta della Repubblica Sociale Italiana, Valenti, in quanto ufficiale della Decima si consegnò spontaneamente ai partigiani della divisione Pasubio credendo gli venisse riconosciuto lo status di prigioniero di guerra. Pur non obbligata Ferida raggiunse Valenti. A capo della divisione Pasubio c’era Giuseppe Marozin, nome di battaglia Vero, in seguito imputato di vari crimini, fra cui omicidi a danno di partigiani e civili. La loro sorte fu subito segnata, subiscono un processo sommario (lei non venne nemmeno interrogata) con inevitabile condanna a morte.
30 aprile 1945, ippodromo di San Siro, Milano, via Poliziano, a soli 31 anni, con l’unica colpa di aver amato, e con un nuovo bambino in grembo, Luisa Ferida, si trova faccia al muro, davanti al plotone di esecuzione, in una mano una scarpina azzurra, che aveva acquistato per il figlio Kim e che doveva riscaldare i piedini del futuro bimbo. Al suo fianco, Osvaldo Valenti, 39 anni, cerca di farla inutilmente sorridere, pur consapevole del destino ormai segnato, “Hai detto che volevi seguirmi dovunque, fino alla morte. Questo è il momento»
Le salme della coppia, portate al cimitero dopo la benedizione di un prete, furono riconosciute da Nelly Valenti, sorella di Osvaldo: i cadaveri avevano al petto ancora cartelli infamanti, che inneggiavano a una presunta giustizia eseguita.
Nell’immediato dopoguerra Giuseppe Marozin subì svariati processi per le efferatezze compiute, nel corso del procedimento penale ebbe a dichiarare: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti.» Marozin sostenne anche, che l’ordine di procedere all’esecuzione di Ferida e Valenti venne direttamente dal C.L.N.A.I. nella persona del futuro Presidente (più amato dagli Italiani) Sandro Pertini, dichiarando: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Pertini si rifiutò di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva scritto durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni a difesa che avrebbero scagionavano i due attori da ogni accusa, ma la fucilazione della celebre coppia era ormai decisa in una rappresaglia simbolicamente punitiva. Negli anni cinquanta la madre dell’attrice, Luisa Pansini, fece domanda al Ministero del Tesoro per ottenere una pensione di guerra, poiché la figlia era la sua unica fonte di sostentamento. Pertanto si rese necessaria un’accurata inchiesta da parte dei Carabinieri di Milano per accertare le reali responsabilità di Luisa Manfrini “in arte” Ferida, al termine della quale si concluse che «la Manfrini dopo l’8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano». La madre di Luisa Ferida ottenne la pensione di guerra comprensiva di arretrati. Luisa Ferida, riposa assieme al compagno di vita e lavoro, nel Campo X detto Campo dell’Onore del Cimitero Maggiore di Milano.