Dei miei eroi ‘cialtroni’ scriverò in altra occasione – chi mi legge, già li conosce. Riprendo il tentativo di mettere ordine fra i libri ammucchiati, dar loro una spolveratina renderli vivi nella memoria. Ritrovo Il monte analogo del francese René Daumal, Adelphi 1968. Rimasto incompiuto per la morte dell’autore a causa di infezione polmonare nella Parigi del 1944 ed edito postumo nel 1952.
Una fiaba, forse. Alla ricerca di quel monte che è al di là d’ogni montagna possibile e che diviene simbolo di unione tra la Terra e il Cielo così com’è appunto l’uomo nella sua postura eretta con le braccia verso l’alto (la lettera ‘algiz’, ad esempio, nell’alfabeto runico). E la spedizione che si mette in cammino, pervenendo alle pendici, ha sua guida Peter Sogol che, letto all’incontrario, propone il termine ‘logos’.
Quel Logos di cui già Eraclito riconosceva l’impossibilità di giungere al centro tanto vasti e profondi i suoi confini – e, allora, ci si chiede se il libro è rimasto interrotto perché vi è in questa ascensione, viaggio interiore, qualcosa di impraticabile oltre un certo limite. Quel limite, questo l’auspicio di Daumal, da superare per contemplare con occhi nuovi il proprio paesaggio interiore. (Forse dovrei accostargli La salita del monte Ventoso del Petrarca che si propone analoga chiave di lettura).
Cerco inutilmente di Ardito Desio, figura storica dell’esplorazione e dell’alpinismo italiano – La conquista del K2 in bella edizione Garzanti -, e mi viene a mente che ne ho fatto dono a Marco, che ama le vette, amico e grafico di copertine di tanti miei libri. Tiro fuori, invece, di Riccardo Cassin, altro nome storico dell’alpinismo Anni Trenta e di chi scopre come la montagna sia una meta non un ostacolo, Dove la parete strapiomba. Libro acquistato alla cifra record di euro 1 su cartoni buttati sul marciapiede e libri accatastati in assoluto disordine.
Forse dalla scrittura troppo asciutta, ruvida, lasciando al lettore scoprire l’efficacia della narrazione. E, perso fra gli altri, la sua forma esile non gli giova, il libro di Werner Herzog, il regista tedesco di film singolari quali Fitzcarraldo e Aguirre furore di Dio, la trasposizione – o vera e propria scenografia – del film Grido di pietra, nata dalla vicenda autentica di due alpinisti alla conquista della cima del Cerro Torre in Patagonia.
Ho imparato ad amare il fiato corto il sudore lungo la schiena il passo pesante il mettersi alla prova soprattutto con sé stessi. E, per alcuni anni, ho trovato rifugio – un rifugio non soltanto al rumore della città e alle sue nevrosi, un rifugio d’anime inquiete – in una elegante baita tra Feltre e Belluno, al limitare del bosco e dopo aver abbandonato, per un ripido sentiero, le ultime case del paese.
Un luogo d’affetti, bruschi e concreti di Emilia, e i ricordi tanti, la presenza muta di Albert, come la tavoletta intagliata sulla porta con la scritta ‘Tout me fait rire’… No, non sono stato certo uno scalatore, solo un modesto vagabondo in cammino ora per prati erbosi ora risalendo e perdendomi tra il gioco delle ombre e delle radure ove il sole filtra e solo in compagnia del mio folle essere contro.
Dall’alto il campanile grigio e sottile della chiesa la barra e mantenere la direzione. Di notte, dopo una minestra d’aglio, quella ‘buona’ (è sempre l’ombra di Albert a parlare, qui conosciuto come Jean-Pierre), la finestra aperta e un ghiro che mi osserva con i suoi grandi occhi luminosi.
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