Non aprite quella porta


 

Non aprite quella porta

Un imponente arco voltaico si sviluppa tra Walter Bedell Smith, il generale americano che appose, per conto delle Nazioni Unite, la propria firma in calce all’armistizio del 3 settembre del ’43, e Steve Pieczenich, il camaleontico affittuario delle stanze del Viminale ai tempi del rapimento Moro. Uno sarebbe diventato da lì a poco direttore della CIA. L’altro soppiantò di fatto Cossiga, e con lui tutto il Governo, nella gestione del presidente della DC, condannato ad essere fatto fuori dalle cosiddette Brigate Rosse.

Sullo sfondo, la gigantografia di Kissinger e la longa manus della CIA, che dovevano porre fine all’ultimo degli episodi d’indisciplina che si erano verificati nella colonia Italia, certamente il più grave, nonostante mettesse contestualmente a repentaglio gli interessi strategici del competitore sovietico.

Ai fianchi dei due piloni che sorreggono quest’arco – con una continuità che ad occhio nudo non si percepisce, ma che appare di un’evidenza solare nel ragionare a freddo su come, sulla lunga distanza, si sono  concatenati  gli eventi –  una serie di volte, sotto le quali la Storia del nostro Paese si srotola obbedendo alle disposizioni draconiane contenute nel Trattato di Pace del ’47 e ancor più – se é possibile – a quelle ‘segrete’, alle quali debbono avere avuto accesso solo gli uomini politici e le teste d’uovo ‘selezionate’ dai dirigenti dell’Anglosfera.

Fanno parte di questa piccola schiera di eletti il Draghi che sale sul ‘Britannia’ nel ’92 col compitino in bella copia su come meglio ridimensionare la funzione sociale dello Stato per lasciare campo libero all’iniziativa privata; un certo Prodi che sfascia l’IRI in ottemperanza  agli ordini ricevuti dagli usurai di Bruxelles e dalla ‘Goldman Sachs’: un certo D’Alema che, nell’intento di dimostrare di aver perso per strada, come una cicala nel periodo della mutazione,  la livrea del comunista, e di essersi convertito al credo del liberismo, prende l’aereo di Stato nell’ottobre del ’98 e atterra nella City immediatamente dopo essere stato nominato dal presidente Scalfaro capo del Governo, un gesto rivelatore, assai più della barca di 18 metri, battente bandiera inglese, con cui ‘Baffino’ amava andare a zonzo nel Mediterraneo per riprendersi dalle fatiche accusate nel sottrarre le Poste, le Ferrovie, la Sanità e le Autostrade alla potestà dello Stato.

Trovo, comunque, piuttosto irrealistica la possibilità che gli inquilini di palazzo Chigi e del Quirinale non abbiano cognizione di cosa risulti scritto nelle clausole ‘segrete’ allegate al testo ‘in chiaro’ del Trattato del ’47 (in codice, TP47), giacché diversamente correrebbero il rischio di interferire con la precettistica del ‘Nuovo Ordine Mondiale’ e, quindi, di uscire di scena (non necessariamente in piedi), mentre dubito del fatto che l’ammissione a tali segreti costituisca la condizione ‘sine qua non’ per essere candidati a svolgere un ruolo importante in seno alle Istituzioni o per ricoprire incarichi di elevata sensibilità in organismi che debbono sintonizzarsi sulle frequenze del concerto internazionale.

Nego, cioè, sulla scorta delle costanti che ricalcano le stucchevoli  ridondanze di un numero periodico semplice, che non ci sia da qualche parte – non saprei dire esattamente dove – una specie di diaframma invisibile – tipo ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’ – attraversato il quale il pupillo di Almirante, Gianfranco Fini, ricompare a Gerusalemme con la kippah in testa per sentenziare che il fascismo era stato ‘il male assoluto’, e  la signora Meloni (che ha, tuttavia, il pregio di emergere con ben altra stazza da uno sciame di pippe), si materializza, trepidando come un bambino alla prima comunione,  al fianco  del leader maximo dell’Occidente, visibilmente rincoglionito, mentre dà prova,  ogni volta che muove un passo, di voler fare l’esatto contrario, salvo rare eccezioni,  di quanto si era ripromessa alla vigilia dell’ultima consultazione elettorale.

Ma nego anche, altrettanto recisamente per una serie di ragioni che sarebbe qui sin troppo facile enumerare a scapito della scorrevolezza dell’articolo , che le clausole segrete allegate al Trattato di Pace del ’47 possano avere attenuato la portata delle condizioni  poste ottant’ anni fa  dagli Alleati all’Italia sconfitta o mitigare – nel caso, per ventura, divenissero di pubblico dominio – la dolorosa impressione che esse fossero state concepite non per punire l’atto di ribellione dell’Italia fascista alle plutocrazie di allora, ma per umiliare l’Italia degli Italiani: cosa che si desume facilmente dal fatto che  non si ebbe, nel redigerne il testo, alcuna considerazione del sostegno in armi offerto dal regime badogliano alla ‘guerra di liberazione’, né del tributo di sangue che fu preteso dal Tedesco invasore ai reparti italiani abbandonati a se stessi, come a Cefalonia.

Prevalse nelle potenze uscite vittoriose dalla seconda guerra mondiale  non la spietatezza verso il vinto, ma il disprezzo (addizionato da un inconfessabile complesso di inferiorità) nei confronti di un Paese che doveva ritornare, fin da subito,  sotto il controllo della Finanza internazionale e conformarsi senza accampare indugi o riserve alle mode politiche, economiche e culturali delle Nazioni Unite ( il titolo dato a se stessi, per estensione, dagli Alleati), cioè dell’Anglosfera, responsabile della perenne precarietà degli equilibri internazionali e di tutti gli omicidi eccellenti (dai Diem, a Moro, a Gheddafi, a Sankara) che essa avrebbe poi perpetrato allo scopo di renderla congeniale ai propri interessi.

L’articolo 16 del Trattato di Pace, anche nelle implicazioni che vi si leggono tra le righe, è la rappresentazione plastica del modo in cui gli Alleati avrebbero impostato il loro rapporto con l’Italia: laddove le fanno espressamente divieto di “molestare alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle forze armate, per il solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal 10 giugno 1940……espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o di aver condotto un’azione a favore di detta causa.” 

Per i principianti dell’ermeneutica – persino per loro –  dovevano essercene tanti, di traditori, di sabotatori e di spie che entrarono subito in servizio non appena il futuro del verbo ‘vincere’ finì di rimbombare nel quadrato di piazza Venezia, e ciò spiega, per vie traverse, l’accanimento giudiziario riservato, nei primi anni ’50, allo scrittore Antonio Trizzino per aver sollevato , nel libro ‘Navi e poltrone’, qualche sospetto – peraltro supportato da una ragnatela di indizi – sull’atteggiamento rinunciatario della nostra Marina da guerra, tradizionalmente legata ai Savoia, nel confronto che essa sostenne con quella inglese, dalla quale si smarcò continuamente anche quando la superiorità dei mezzi, come al largo di Punta Stilo, le avrebbe potuto garantire il successo.

Così stando le cose, si può essere autorizzati a pensare che questo articolo, oltre ad aver suggellato per l’Italia lo ‘status’ di Paese vinto – che doveva dipendere già solo, e con l’avanzo, dall’averle inflitto delle pesanti mutilazioni territoriali e dall’averle confiscato le colonie, anche quelle acquisite in epoca diversa dal ventennio fascista – potesse, e possa, trovare applicazione, combinandosi con le parti ‘classificate’ del Trattato, anche al di fuori del modesto margine temporale del dopoguerra e aver comportato, sul piano delle condotte condivise dalle istituzioni e dai media, una pronunciata corrività a distinguere il valore morale, politico e giudiziario delle azioni (e, per converso, delle omissioni) a seconda se siano compiute dagli Italiani, ridotti a colonia , o da cittadini appartenenti all”Anglosfera’, per i quali è stato predisposto un regime speciale: ciò che, senza troppa fantasia, potrebbe desumersi da una serie di episodi criminosi, come la strage del Cermis, il delitto di Perugia del primo novembre del 2007, la fucilazione ‘per errore’ di Calipari in quel di Bagdad, l’accoltellamento mortale del carabiniere Cerciello Rega, i cui autori – tutti americani – sono stati solo supposti o trattati con ogni possibile riguardo quando non si è riusciti a cancellarne la firma.

Un po’ per l’oblio, che stende una mano uniforme di giallo seppia sulla Storia che si è già adempiuta (specialmente adesso che i giovani non leggono un libro), un po’ pure per le gambe sempre più corte del compasso con cui quelli della ‘verità che è già stata scritta’  delimitano l’ambito nel quale fanno ricerca partendo dai loro inossidabili pregiudizi,  fatto sta che nessuno, avendone facoltà, ha mai chiesto ai vincitori di disvelare il contenuto delle clausole segrete del PT47, né, tanto meno, di eliminarle, e nessuno, d’altronde, si è mai posto il problema che esso non abbia determinato la Storia facendole prendere, in alcuni casi, una piega completamente diversa da quella che avrebbe avuto senza di esse.

Si tratta, forse, di pretendere troppo da chi, come nell’ultima replica del rito orgiastico celebrato sull’attentato di Bologna dell”80, crede o finge di credere che dietro ci siano i ‘fascisti’: il compasso tenuto, quasi chiuso, su di un quadrante di pochi millimetri, e la leggenda dei ‘fascisti’, facile come quella degli elfi e dei big-foot, appannaggio di chi non sa scovare la verità o non è in grado di sopportarla.

Anni fa, scartabellando tra i reperti archivistici del ‘piano Solo’, mi imbattei nella lettera di richiamo con cui il direttorio della giovane Europa contestava al Governo di Centro-Sinistra  – già sotto attacco per il sostegno dato all’ENI nel divincolarsi dalla morsa delle ‘Sette Sorelle’ –  le spese folli sostenute per nazionalizzare l’energia elettrica e, in ultimo,  per portare le famiglie italiane fuori dalle baracche con un piano a lungo termine di sostegno all’edilizia pubblica: tutto ciò avveniva per il semplice fatto che in entrambi i casi risultava danneggiata l’iniziativa privata, in contrasto coi fondamenti stessi dell’UE, quelli dai quali, ovviamente, lo statalismo era escluso come la peggiore delle iatture per l’economia di mercato.

Nondimeno, spaventava il fatto che per la prima volta in un Paese occidentale incistato nell’Anglosfera,  il partito comunista – che aveva diversi punti di contatto coi socialisti chiamati da Moro, nel dicembre del 1963, a far parte della squadra di Governo – era parso così vicino alla stanza dei bottoni da costituire una minaccia per gli obiettivi posti alla UE dai suoi  artefici _ che non erano Adenauer, o De Gasperi, o Spaak, le solite facce buone da riprodurre sui francobolli – ma il conte Kalergi e Bedell Smith, il firmatario dell’armistizio di Cassibile (evento al quale persino Eisenhower si rifiutò di partecipare per ‘non sporcarsi le mani’), il secondo dei quali s’impegnò a fondo nella costruzione di  questo mostruoso artificio dell’Europa Unita unicamente perché riteneva che  essa avrebbe integrato, sul piano politico, la consegna di  ‘contenere’ l’Unione Sovietica che  era stata fatta, sul piano militare, alla NATO, e avrebbe, inoltre, scongiurato  ogni eventuale proposito di ‘revanche’ da parte della Germania sconfitta, facendola scivolare inerte , assieme anche all’Italia, nel frullatore comunitario.

Il piano ‘Solo’ é solo il primo tempo – con Moro sempre in mezzo –  di un film il cui prosieguo è rappresentato dalla Renault 4 amaranto che si sarebbe aperta, quattrodici anni più tardi, su di lui, assassinato, in via Caetani, ma tutto, nella storiografia corrente e nell’immaginario collettivo, si esaurisce nelle ristrettezze di un cortile in cui campeggiano il ‘caudillismo’ del generale De Lorenzo e i disturbi senili  di  Antonio Segni.      

Ci fu certamente un tintinnio di sciabole – come narra la vulgata – ma é molto probabile che esso fosse provocato dalla rabbiosa agitazione di un godzilla che fremeva dietro la porta. Pur sempre, una questione di porte: che non si aprono perché qualcuno ha deciso di tenerle chiuse.

 

 

 

Immagine: https://www.agenziacomunica.net/

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