Tre invasioni (se non di più)


 

Tre invasioni (se non di più)

Tranne che i pirati del Pensiero Unico non abbiano ancora finito di abbordare nel mare mosso della semantica le parole che lo solcavano e le abbiano tutte svuotate del loro significato mettendoci un altro, e tranne, inoltre, che il loro drappo nero, con tanto di teschio e di tibie incrociate, non sventoli su tutto il vocabolario, mettendolo al servizio dei misantropi riuniti sotto le insegne del mondialismo, il termine ‘INVASIONE’ definisce ancora lo sconfinamento di una cosa aliena all’interno di un altro gruppo di cose, passabilmente omogeneo, per sostituirvisi: un processo quasi impercettibile coi normali mezzi di rilevazione, come lo è il tempo computato per giorni e per mesi sullo sfondo delle ere geologiche,  e come regolarmente avviene grazie all’assuefazione. Dicasi perciò ‘INVASIONE’ (e non ‘CONTAMINAZIONE’, fattispecie che dipende dallo stare insieme per  scelta, sulla base di un interesse condiviso) anche l’atto compiuto da una lingua straniera – segnatamente l’Inglese – nell’insinuarsi sotto pelle, simile ad un fiume carsico, e nel generare una selva di stalattiti nel cuore della lingua che fu di Petrarca e di Dante: non già soltanto l’erosione, da parte dell’esperanto dei padroni e degli usurai, del vocabolario di un popolo, ma la sua estromissione al rallentatore dal palcoscenico della Storia, perché di quel modo di esprimersi, fatto di parole, non ci si libera come di una canottiera sudata senza perdersi, e senza perdere l’anima.

La scuola, che é un ganglio determinante di questo sistema, volto a privarci della nostra identità e a portarci un poco alla volta, fuori dal seminato della civiltà conosciuta per imporcene un’altra, dai vaghi contorni orwelliani, ci sta mettendo da vecchia data molto del suo: con l’abolizione del tema, al quale si sopperisce coi pensierini dei baci perugina, col ripudio  della grammatica e della sintassi che si mettono di traverso ostacolando la creatività  degli alunni, col chiamare il robivecchi dalla finestra perché  venga su a prendere i ‘classici’ (una categoria che arriva fino ad Italo Calvino e a Pasolini) perché hanno fatto la muffa e non li capisce più nessuno, neppure i professori, figuriamoci dei ragazzini di dodici o quindici anni che sono tutt’uno con la loro detestabile leggerezza.

La lingua inglese –  strumento di politica coloniale rivelatasi assai più potente delle giubbe rosse – fodera  quasi tutto l’orbe terraqueo, ma questa non è un attenuante per chi pensa che il mondo sia sempre più interconnesso per favorire, attraverso l’imposizione di uno standard linguistico (che agisce inevitabilmente sulla struttura del pensiero) la sottomissione di masse sempre più  estese al moloch della Finanza internazionale, e non può esserlo neppure per chi ha studiato per tutta la vita da presidente del Consiglio con la speranza di essere ricevuta un giorno a casa dell’Imperatore in persona e di esserne elogiata, avvolta dalle sue braccia, per  come parla l’Inglese, quasi meglio di lui. 

Fosse solo una, d’invasione. Il nemico – perché di questo si tratta, nonostante i media, controllati dagli scagnozzi di Soros facciano di tutto per occultarlo – si propone  sotto forma di un’istituzione abusiva – gli Stati Uniti d’Europa, registrati all’anagrafe come ‘Unione Europea’  – di cui si dice erroneamente che abbia avuto i natali tra le rupi nere di Ventotene: che potrebbe anche darsi, a patto che si accolga l’ipotesi che ci sia stato  uno scambio doloso nella culla, una sottrazione furtiva, come quella patita dal capo della polizia, Vincent Aiello, in una delle scene più famose del film ‘C’era una volta in America’.

In realtà, l’UE, come tutti i mostri censiti dalla mitologia greca e romana,  nacque dai vaneggiamenti del conte Kalergi  e dalla decisione, maturata nelle segrete stanze di Washington, che, nel replicare il modello amerikano,  l’Europa dovesse, da un lato, circoscrivere ad ovest l’Unione Sovietica e disinnescare dall’altro, l’eventuale resurrezione dei Tedeschi, sui quali venne scaricata pressoché intera, la responsabilità di aver messo più carbone di tutti gli altri nella caldaia di due guerre mondiali: un progetto che nacque già male, come tutti i mostri, perché, a differenza di quelli americani che potevano unirsi  perché avevano in comune il raro ‘privilegio’ di non avere alcuna storia alle proprie spalle ( se non quella delle danze circolari inanellate dagli indiani al chiaro di luna e dal sipario di polvere sollevato dalle carovane in marcia verso il Far West), i popoli della vecchia Europa  erano, e sono, deliziosamente diseguali, ed è dunque un insopportabile paradosso quello che, a volerli mettere tutti insieme sotto lo stesso giogo (vittime di una legiferazione sconclusionata e rapace: le 10 giornate di Milano divamparono per molto meno) e a pretendere di trattare allo stesso modo Italiani e Belgi, Greci e Polacchi – gli abitanti di un fazzoletto di terra, in cui basta muoversi solo di qualche chilometro per scoprire che il formaggio ha cambiato nome e che suonano un’altra musica  – siano proprio i soggetti che pubblicizzano una società fatta di monadi microscopiche, che stanno declassando la famiglia ad una sorta di aggregato facoltativo ed instabile come quello formato dai dischi di grasso  del consommé, e che sostengono di aver scoperto l’esistenza di tanti altri generi, ben oltre il ‘neutro’,  che costituiva un’estrema concessione dei parrucconi dell”800.

Che l’Europa – oggi di una megera cotonata che assomiglia maledettamente all’infermiera del manicomio di Salem, e ieri di un ubriacone lussemburghese che si reggeva in piedi mentre sproloquiava solo se lo tenevano da sotto  le ascelle – sia ormai ridotto ad un frattale dell’Amerika, che ne riproduce i vizi incarniti, e che non può permettersi di assumere alcuna iniziativa, che non sia stata vidimata da Washington,  dovrebbe essere evidente quanto il fatto che, trattandosi di cosa che si è insinuata pian piano dentro un’altra cosa e vi si è installata per lasciarle solo la pellicola esterna, come nei peggiori film d’horror, il nome di tale sequenza sia da scegliersi tra  ‘SOSTITUZIONE’ e ‘INVASIONE’, due orribili fattispecie, delle quali la prima si sviluppa a rimorchio della seconda, purché si colga (orsù, non è affatto difficile) il  rapporto di causa/effetto  tra due istantanee.

In una, i barconi, brulicanti di gente aliena, sfilano di notte davanti al molo: non c’è nessuno ad aspettarli, salvo lo Stato che ha ricevuto da Bruxelles l’ordine di farceli entrare, mentre la gente dorme con la luce accesa o ha chiuso le finestre come quando per paura e per rabbia, preferisce negarsi a ciò che succede fuori. Nell’altra, i predecessori degli ultimi arrivati, nel prendere confidenza con l’ambiente, nel quale pensavano di poter trovare le donne ‘che ci stanno’  e di vivere a sbafo, pisciano disinvoltamente contro la statua di Garibaldi (che per loro – detto per inciso –  è solo un mero manufatto di  pietra), si radunano a frotte, simili agli uccelli neri di Hitchcock, sui fili invisibili che circondano le stazioni, scacarellando ovunque, e, se ne hanno abbastanza di tanta noia, c’è sempre da qualche parte qualche vecchietta che vive da sola a cui tagliare la gola  o  una giovane sbandata da fare a pezzi.

A casa mia – a meno che non mi abbiano sfrattato e non me ne sia accorto – non si ha INVASIONE solo quando il nemico rompe gli argini, armato, e si riversa nella proprietà altrui. Può darsi, infatti, che essa avvenga, sotto le mentite spoglie di un fenomeno causato da sventure sesquipedali, come una carestia, o come una guerra: ma non ci sono state carestie di grandi proporzioni in passato e grandi guerre, specialmente in Africa, e non consta che un così elevato numero di persone abbia mai provato ad entrare, senza permesso, in territorio italiano, mentre a Ceuta e a Melilla – qui, dietro l’angolo – li respingono a fucilate, e gli australiani – gli abitanti di una terra che potrebbe ospitarne a milioni per quanto è estesa –  trattiene l’Asia che trabocca in mezzo all’oceano  schierando le cannoniere. Può darsi, inoltre, che le colpe dell’invasore consistano soltanto nell’approfittare della complice passività del soggetto al quale appartiene la proprietà invasa, ed è questo il caso, perché non c’è alcuna legge, nei capitolati  del Diritto internazionale o promulgata dalla coscienza, che obblighi uno Stato  ad accogliere indiscriminatamente chiunque metta piede nelle sue spettanze territoriali e  lo esima dal chiedersi, a tutela dei propri interessi, quelli più elementari, se egli non sia un terrorista, un malato di mente, una bomba piena di bacilli mortali, e se nell’accamparsi, insieme a tutti i suoi conterranei, in un’altra società,  con la sua (in)cultura, votata all’illibatezza, – non ne pregiudichi, senza alcuna contropartita, gli statuti, la coesione, la colonna sonora che si è strutturata lentamente nei secoli dei secoli: in altre parole, se  non ne determini l’estinzione.

Si è parlato a lungo del blocco navale, e gli echi di questo impegno preso solennemente prima delle elezioni dal partito che è arrivato al Governo, si sono stemperati in un silenzio di tomba, ma il blocco navale non è impraticabile purché  si associ, prima di riportarli indietro, all’imprescindibile dovere di assistere i turisti della ‘Camel Adventure’ che si sono affidati alle cure degli scafisti, e a patto che si abbia il coraggio di ribellarsi  all’ indifferenza ostile della Commissione europea, per la quale ciò che è italiano è ormai divenuto ‘europeo’, fatta eccezione per le coste della penisola, che sono rimaste inderogabilmente italiane.

Però la chiamano ‘accoglienza’: un po’ come quando uno muore per passare a miglior vita, e la più puttana delle puttane assurge, con un illusionismo lessicale, al ruolo di ‘escort’, benché di una persona che insiste nel comportarsi male non si è mai detto (o gridato, con le rotonde risonanze emesse da Eli Wallace in un bellissimo western di Sergio Leone) che è figlio di una grandissima escort.

 

Immagine: https://www.europassitalian.com/

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