Come la novizia al cospetto del vescovo


 

Come la novizia al cospetto del vescovo

Risuona ancora nell’anfiteatro di piazza San Pietro la tonante esortazione di un grande papa a non avere paura delle proprie paure, che allora avevano anche il volto di Breznev, due folte sopracciglia, una pensilina sotto cui si riparavano due tumide labbra, quelle del ‘bacio socialista’ scambiato con Erich Honecker, alla vigilia del crollo verticale del loro impero, polvere e calcinacci.
Anch’io, da questa modesta scrivania, in un edificio nel cuore di Centocelle, ho, nel mio piccolo, la presunzione di venire ascoltato se dico che bisogna al più presto liberarci della paura di parlare e di scrivere, che ci è stata infusa dalla corporazione dei valletti sciocchi dell’establishment, quando qualsiasi cosa tu dica o faccia, è sempre sbagliata, soprattutto se è giusta, perché non sei uno dei loro.

Esemplare, a tale riguardo, è la stupida polemica orchestrata nei confronti del marito della Meloni (da cui per questa prestazione passerò al più presto per riscuotere l’onorario) per aver detto, nel corso di una trasmissione televisiva, che le donne farebbero bene, nel godersi le serate in discoteca, ad andarci piano con la droga e con l’alcool per non trovarsi poi disarmate di fronte al lupo cattivo. Il consiglio che si dà ai bambini che attraversano la strada, di farlo solo sulle strisce, o al figlio, di mettersi il maglione col collo alto se fuori fa troppo freddo. Né più né meno. Domineddio, ne è scaturita una tempesta di improperi, da quello canonico che il consorte della premier è uno (sporco) fascista, a quello, quasi consequenziale, di essere proiettato – un salto all’indietro che non finisce mai – nel buio pesto del Medio Evo.

Una delle verità che emergono da questa vicenda è che il Comando Generale dell’Establishment dispone di un algoritmo infallibile in base al quale, ad esempio, se durante una conversazione o su di un testo scritto che pendono verso sinistra compare la parola ‘donna, essa deve essere necessariamente il preambolo di una lode della condizione femminile, mentre, viceversa, se è incastrata in cose dette o scritte da elementi classificati ‘di destra’ la stessa parola segnala – il lampeggiante rosso e l’urlo della sirena – la presenza, nascosta nei dintorni, di una dose letale di maschilismo.

L’impressione che io ricavo da questo, come da altri analoghi episodi, è che, nel difendersi da questi attacchi, che denotano più ancora che una certa idiosincrasia all’analisi del periodo, una diabolica predisposizione a mistificare la grammatica della vita, quella che, convenzionalmente ed erroneamente chiamano ‘Destra’, faccia uso di troppo poche spade e di troppi scudi

Un equipaggiamento risicato, che non può molto contro l’artiglieria pesante – l’Alta Finanza, il trust mediatico, i cani sciolti dell’apparato giudiziario, che, poi, tanto sciolti non sono – sotto la cui protezione l’orda avanza a ranghi serrati verso di essa, ma se non fosse per il grave sospetto, più volte manifestato su queste pagine, che Destra e Sinistra siano due burattini manovrati dallo stesso burattinaio per tener viva l’illusione della democrazia, avrei dei seri dubbi sul fatto che la Sinistra, intesa come sistema di potere e come residuato ideologico, abbia una pur blanda possibilità di sopravvivere alla propria straripante pochezza.

Già quella Schlein. Si sarebbe detto di lei che è l’onomatopea dell’atto che si compie per liberare la gola dal muco in eccesso; che è mezzo e mezzo, non solo nell’essere americana e svizzera insieme (con una goccia di sano giudaismo, che lega bene), ma che è mezza e mezza oltreché nel genere, anche nella specie, come recita la didascalia di certe caricature nelle quali esibisce un sorriso con un migliaio di denti. Una sorprendente somiglianza, in tutti i sensi, con tale Paola Egonu, la pallavolista nera che parla sempre male di questo Paese e che quando le compagne di Nazionale cantano l’inno di Mameli lei fa finta, biascicando sotto voce qualcosa che sa di arcano e di magico, come la formula propiziatoria brevettata dallo sciamano.

Sarei tentato di continuare su questo adagio se non mi sentissi obbligato a fornire la mia opinione su come e perché il più grande partito comunista dell’Occidente, che menava vanto della sua discendenza da Gramsci e che era stato agli ordini di nocchieri provetti, come Togliatti e Berlinguer, sia potuto cadere così in basso, nelle mani di una scappata di casa, la quale, ogni qual volta le capita di aprir bocca, anche soltanto per sbadigliare, gli fa perdere virtualmente un sacco di voti. L’impressione è che di quel popolo che un giorno riempiva le strade e le piazze prendendo l’abbronzatura sotto il sole dell’avvenire, ci siano solo pochi superstiti, quelli che spuntano fuori alla festa dell”Unità’, muniti di grembiule e di cappellino, per servire al tavolo – senza rendersi conto che lo fanno anche coi ‘fascisti’ che vanno lì perché vi si mangia bene – mentre ho l’assoluta certezza, tratta dalla meditazione e dallo studio, che il PCI sia morto, per rinascere a nuova vita come mandatario dell’Anglosfera, proprio quando i magistrati di ‘Mani Pulite’ decretavano la fine della Prima Repubblica, e che, dunque, la decisione di preservarlo dal contrappello giudiziario, sia stata presa fuori dai confini dell’Italia, nonostante Botteghe Oscure si fosse resa colpevole, sin dall’immediato dopoguerra, di un reato molto più grave che l’essersi ingozzati di tangenti, commesso da DC e PSI, giacché la riscossione dell’oro sovietico’, cioè di un Paese potenzialmente nemico, avrebbe potuto configurarsi come condotta pregiudizievole per la sicurezza della nazione, e costituiva comunque un’anomalia, come lo sarebbe stata la creazione a Roma di un partito ‘cartaginese’ al tempo delle guerre puniche.

Ho anche un’altra certezza: quella che non si possa scrutinare più di mezzo secolo della nostra Storia senza dividerla preventivamente in due grandi fasi, ancorché in alcuni punti esse si confondano l’una nell’altra e diano luogo ad un panorama alquanto sfocato. Nel primo – che inizia all’ingrosso dal ’45 e sfuma, attraverso una serie di plastiche dissolvenze, nella conversione da parte di Berlinguer all’eurocomunismo (l”overture’ in si bemolle della rottura definitiva con i precettori del Cremlino) – il PCI può legittimamente definirsi come un corpo estraneo conficcato nel cuore dell’Occidente. Nel secondo, il PCI si trasfigura, cambiando diverse volte ragione sociale -senza peraltro rinunciare, nelle parole e nelle immagini, alla tipica prosopopea della vecchia Sinistra – per assumere pressoché in esclusiva la rappresentanza in Italia degli interessi dell’Anglosfera.

Ma la metamorfosi è avvenuta quasi interamente sotto traccia e solo di rado allo scoperto (la svolta di Occhetto alla Bolognina, dell’89, il tonfo del timbro a secco che convalida la cambiale), e non c’è verso che, nel passare al vaglio certi episodi, non mi persuada che il signor Napolitano (responsabile più tardi dell’attacco autolesionistico a Gheddafi commissionato dalla NATO) fosse partito per una lunga tournée negli USA proprio mentre uccidevano Moro per dire agli americani, che, sì, avevano dovuto partecipare di malavoglia alla manfrina del ‘compromesso storico’ ma che non avevano alcuna intenzione di ripercorrere all’indietro la strada maestra che gli era stata indicata – il dito di Dio nella sua versione michelangiolesca – dai padroni dell’Italia e del mondo, e nessuno, d’altronde, mi toglie dalla testa – come non me la toglieva quando scrivevo per l”Astrolabio’ e per ‘Giorni – Vie Nuove’ in concomitanza con quegli eventi – che la fermezza marmorea con cui il PCI stabiliva che non era possibile negoziare la liberazione di Moro con le cosiddette Brigate Rosse e che, quindi, bisognava correre il rischio di vederlo morto, dipendesse unicamente dal fatto che la mutazione da partito antagonista del Sistema a partito cardine del Sistema era già in atto e che il ‘compromesso storico’ vagheggiato dal presidente della DC rappresentasse il peggiore degli ostacoli per il compimento di tale processo.

Giunto ormai quasi al capolinea (tié) della mia carriera biologica, mi accorgo di aver dato spesso un’interpretazione divergente dei fatti, ragion per cui ho pagato pegno due volte: la prima con l’essere stato messo di lato perché bestemmiavo; la seconda, per aver dovuto presenziare di malavoglia alla consegna dei diplomi a chi è arrivato dopo, a braccia levate.

In molti, del pubblico, hanno visto un film – segnatamente quello del PCI, amico dei lavoratori e baluardo della democrazia in Italia – ma debbono aver preso dagli scaffali la pizza sbagliata, giacché , nel ’45, refrattari per costituzione fisica e mentale all’idea di ‘nazione’, i maggiorenti del PCI offrirono agli americani (come fanno i gatti con le piccole prede lasciate ai piedi dei loro padroni) il cadavere sottosopra di Mussolini, e lo fecero mentre il loro orologio era da quel dì sincronizzato su quello del compagno Stalin: per poi, quindi, posizionarsi come un ‘exclave’ sovietica al di qua della cortina di ferro, e rientrare, armi e bagagli, sotto l’egida americana quando cominciarono a sentire puzza di bruciato nelle opere e nelle omissioni di Michail Gorbaciov.

Non è un caso che il PCI abbia avuto dei capi quando doveva proporsi come antemurale dello Stato borghese e accreditarsi , nel contempo, come una compagine politica ligia alle regole dell’ordinamento democratico, e abbia avuto invece tanti capetti, uno più mediocre dell’altro, allorché, sotto il nome di PDS, DS e PD (il segno inequivocabile di una drammatica crisi d’identità), è passato al servizio dei poteri forti, che non sono solo quelli che razzolano nel cortile di casa. Lì, infatti, il capo era l’espressione di un pensiero complesso, quale si richiede a chi debba fare surf cavalcando due onde insieme, mentre qui, ora che è prevalso il ‘pensiero breve’ – ciò che serve per obbedire e per non farsi espropriare dei vantaggi di cui si gode con l’esercizio del vassallaggio – se ne può fare tranquillamente a meno.

Se, perciò, non è un caso che sia stata incoronata segretario del PD un’incantevole nullità, non lo è neppure la feroce determinazione con cui , appoggiandosi ai media di regime (tra i quali annovero ‘Repubblica’ e il ‘Corsera’, che qualcuno pudicamente nasconde in mezzo ad altri giornali come facevo io, da ragazzo, con la copia di ‘Man’) , e prendendosela coi milioni di vannacci che la pensano allo stesso modo del generale Vannacci, i Dem, in realtà, non si schierano a difesa di un progetto politico o, come si soleva dire una volta, di un ideale, ma di rendite consolidate dalle quali non intendono separarsi, anche a costo di finire di ammazzare questo Paese, che era , o è, quasi morto.

Posti di fronte a tali miserie, i due maggiori partiti della Coalizione al Governo debbono scegliere tra due opzioni strategiche. O calarsi completamente nei panni del soggetto che, al di là delle schermaglie protocollari, accetta di far parte – come i Lib e i Lab nel Regno Unito, o i Democratici e i Repubblicani negli USA – dello stesso sistema politico, cementato e legittimato dal rito dell’alternanza. Oppure, sottrarsi alla tentazione di giustificare, con dei complicati giri di parole (l’atteggiamento della novizia che si ritrova al cospetto del vescovo), le proprie iniziative per il timore che vengano marchiate come ‘fasciste’, e sterzare, con un’accelerazione profonda, verso l’alternativa: esattamente il motivo per cui FdI e Lega sono stati votati dai vannacci che non sono rimasti a casa nelle elezioni dell’anno scorso. E’ ovvio che in tal caso essi incontrerebbero, come si suole dire, una velenosa resistenza in questo mondo e in quell’altro (soprattutto, quell’altro), ed è altrettanto ovvio che, se le scelte politiche fossero oggetto di scommessa nelle ricevitorie dello SNAI, su questo secondo scenario – sarò sincero – non ci butterei dei soldi.

 

Immagine: https://www.ianritter.com/

 

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