Di Lorenzo Merlo
C’è un traguardo che attraversa indenne le forme vischiose della storia. A mezzo di esso si può riconoscere a quanti ami continuiamo ad abboccare, si può prendere coscienza della favola del mondo.
Quando schiudevano gli occhi i pulcini d’oca vedevano Konrad. L’etologo austriaco se ne prendeva cura, li allevava fornendo loro il necessario alla crescita. L’esperienza vissuta dagli animaletti, comportava che questi considerassero lo scienziato coma la propria madre. Lo seguivano, e se si fermava anche il plotoncino starnazzante cessava di vagolare.
Tralasciando la grande differenza che qualcuno vorrebbe sostenere tra sé e un’oca, il comportamento dei paperini lo possiamo ritrovare in noi.
L’ambiente in cui nasciamo, con il carico di valori, consuetudini, eccetera ci fa da madre. Vitanaturaldurante, ad essa ci riferiamo per avere risposte, per distinguere bene e male, per ottenere il conforto, per seguitare ad avere un’identità e quindi una stabilità, per non sentirci spaesati, sperduti o perduti.
Nonostante questo procedere sia sotto gli occhi di tutti, invece di riconoscere la parità delle parti, la reciprocità delle posizioni, l’identicità della modalità e i conflitti che ciò comporta, seguitiamo a identificarci con gli ambiti in cui siamo nati e che ci contengono. In altre parole, fondiamo la concezione del mondo, del prossimo, di noi e della vita solo ed esclusivamente sull’aspetto formale della realtà.
Una sorta di miopia affligge, apparentemente asintomaticamente, buona parte del genere umano. Il risultato è, nuovamente, disponibile a chiunque. Alla faccia del moralistico intento di benessere, il rischio di consumare momenti di pena, dolore e malattia è sempre elevato. L’incantesimo emozionale in cui nuotiamo è potente. Impedisce l’evidenza che non c’è un mondo fuori da noi se non quello in cui crediamo. Impedisce di sbugiardare la fandonia della realtà oggettiva, quella dell’osservatore neutro, della separazione tra noi, il nostro pensiero e sentimento e il cosmo. Elegge a dogma la supremazia della logica e quindi del mondo appiattito su essa, nonché della scienza, quale sua perla filogenetica. In sostanza ci obnubila l’infinito che siamo. Una consapevolezza che necessariamente comporterebbe altre politiche, educazioni, vite. Che ci impedirebbe di citare la sfortuna in merito a quanto ci capita ovvero, ci permetterebbe di riconoscere in noi stessi la realtà che ci sta accadendo. Lo facciamo nel bene, accreditandoci tutti i meriti ma, asimmetricamente, evitiamo la medesima conclusione nel male.
C’è una figura dinamica che raccoglie in un solo colpo il concetto che ho provato a esporre, entro il quale brucano sempre dal medesimo pascolo le nostre idee ripetitive, mai evolutive. È il frattale. Strumento simbolico funzionale per riconoscere tanto la natura dell’incantesimo, quanto quella sua potenza. Per avvedersi di cosa significhi la formula alchemica così in basso come in alto, quella taoistica dell’Yin e Yang, quella esoterica che nella parte c’è il tutto, quella vedica che il pensiero genera il mondo, quella tolteca del punto di attenzione, quantica che l’osservatore genera la realtà, sciamanica oracolare, cristica miracolare, quella naturale dei vuoti e dei pieni, della musica di pause e suoni.
Se emanciparsi dai genitori è necessario per riconoscere il proprio sé e avviarsi a scoprire la via della realizzazione, così la scoperta della vita, il mistero della beatitudine, la bellezza dell’esistenza e la liberazione dall’incantesimo dei perché, sono a disposizione di chiunque cessi di identificarsi con una qualunque delle forme della storia.
“Se noi ci apriamo, si apre il mondo”.
Ernst Junger, Terra sarda, Il Maestrale, Nuoro, 1999, p. 82.