Ne La vita come ricerca Ugo Spirito scriveva che pensare significa obiettare, al che il suo maestro, Giovanni Gentile, replicava che riteneva si fosse d’accordo che pensare significasse giudicare, ovvero affermare o negare e quindi non porre ma risolvere problemi, non proporre ma superare obiezioni, non urtare in antinomie ma superarle. Si può dire cominci in quel lontano 1937 l’urto tra il pensiero debole e il pensiero forte, che intorno agli anni settanta, vedrà il trionfo del primo. Il Sessantotto, infatti, aveva provocato la deideoligizzazione della società e aveva sollecitato i filosofi a pensare che l’idea della crisi si fosse spostata all’interno dell’idea stessa di verità. Si affermava, rifacendosi a Marz e al Nietzsche depotenziato delle interpretazioni degli ani sessanta, che la cogenza del fondamento, l’evidenza metafisica della fondazione, nascondessero solo rapporti di dominio. I pensatori “deboli” ritennero che il nuovo essere con cui si aveva a che fare dovesse ridursi a traccia, ricordo, a un essere consumato-indebolito e solo per questo degno di attenzione. Il che spiega le attuali posizioni della sinistra “al caviale” in merito a fenomeni drammatici come le attuali migrazioni e il timore che suscita tutto ciò che rimanda invece all’antica forza che il pensiero aveva rivendicato fin dall’antica Grecia, quando si formò la civiltà europea, per la quale verità è alètheia, svelamento, scoperta del fondamento dell’essere, via privilegiata d’accesso alla realtà. La battaglia contro il pensiero forte doveva condurre a un’etica della debolezza, con l’annessa cancellazione di ogni origine dei valori. In una certa ermeneutica moderna – Gadamer, ad esempio – la nozione forte di verità si dissolve in un dialogo diffuso, in uno scambio collettivo di significati che non poggiano su alcun referente stabile e non conducono a verità definitive. Era inevitabile che si giungesse a una dimensione politica in cui viene negata l’identità per evitare il conflitto e di conseguenza si rendesse necessario negare tutte le verità evidenti – come, ad esempio, la differenza tra maschile e femminile – per derubricarle a sovrastrutture sociali e culturali. Solo che senza centri e riferimenti è facile che ad imporre la verità politicamente corretta siano i poteri forti, le centrali di condizionamento delle masse. Un pensiero debole privo di una salda coscienza del passato e di un’altrettanto salda prospettiva del futuro è così un pensiero che non progetta, ma che si getta in avanti perché dinanzi all’esistente non svolge più un ruolo critico. È il tipico atteggiamento di chi ritiene inutile contrastare le linee di tendenza della contemporaneità perché “così vanno le cose” e opporsi significa destinarsi allo scacco. Segno, questo, di impotenza a costruire strutture di pensiero “altro” dall’esistente, di coltivare l’utopia, che sono possibilità riservate a un pensiero forte, capace di individuare un progetto e procedere per esclusioni; laddove un’altra caratteristica del pensiero debole è l’atteggiamento di pietas nei confronti di ogni manifestazione dell’essere, per cui tutto è legittimo e ogni devianza è solo una possibilità resa cieca dal pensiero forte e che va liberata e restituita alla luce. Il problema è che la civiltà da noi conosciuta è originata dalle architetture metafisiche di una società “forte”, anche quando con l’Illuminismo esprimeva il diritto di cittadinanza del dubbio, ma non minava mai le basi, le fondamenta della vita e della politica, mentre l’attuale civiltà dell’accoglienza, dell’ascolto – termini che rimandano già di loro a un atteggiamento passivo – non costruisce nulla e si avvia felicemente all’autodissolvimento. Un altro problema dei nostri tempi di dominio del pensiero debole è costituito dal fatto che mentre quest’ultimo si porrebbe in automatica antitesi a ogni ideologia dell’imposizione e della violenza, ciò non determina tuttavia disimpegno estetizzante perché, al contrario, il pensiero debole comporta la vigilanza rispetto alle possibili ricadute in nuove forme di assolutizzazione. Si tratta della “vigilanza democratica” che rifiuta diritto di cittadinanza alle opinioni contrarie, soprattutto quelle che rifiutano la debolezza del pensiero e rivendicano la certezza del fondamento. Certe forme nuove e vecchie di repressione sono, come si vede, figlie di un processo di secolarizzazione in cui il nomos svincolato dal kosmos perde ogni efficacia e l’autonomia della legge si trasforma ben presto in autonomia dalla legge. Di fronte allo strapotere della crisi divenuta sistema resta il recupero del pensiero forte che implica la riacquisizione di un più autentico Sé e l’uscita dal cerchio magico delle sollecitazioni inconsce, dei messaggi subliminali, rifiutando il costante invito mediatico a vivere fuori di sé, in dimensioni virtuali. Un compito sempre più difficile.
Rodolfo Sideri