Il principio di identità e non contraddizione è stato l’architrave sul quale la cultura europea ha edificato una civiltà la quale, nonostante i suoi molti errori ed orrori, costituisce ancora quanto di meglio l’umanità si trovi a vivere. Una civiltà in cui appunto una cosa non era un’altra: un uomo è un uomo e non una donna; il bianco è bianco e non un altro colore; la verità non è una menzogna o meglio una post-verità; ciò che è vivo non è morto, e così via. Oggi, calate le ombre della sera, l’identità spaventa perché viola i santuari del politicamente corretto ed espone chi la rivendica all’accusa di arroccamento, di estremismo politico; oggi, ci dicono, viviamo in una società liquida nella quale domina l’indeterminatezza, dove si rifiuta tutto ciò che non si ibrida. Il problema è che se si cancellano le fondamenta non si può pretendere che l’edificio resti in piedi, e infatti non vi resta. I fanatici del mondo liquido, per essere conseguenti, devono guardare con disprezzo anche alle conquiste che una società solida aveva reso possibile; se disprezzano la storia di un Occidente visto solo come sentina di ogni male, devono disprezzare anche il compiuto raggiungimento dei diritti civili e umani, sia pure dopo un lungo e doloroso processo. Lo stesso dialogo tra le diverse culture, a parole tanto vagheggiato dagli utili idioti del politicamente corretto, è stato storicamente possibile perché nessuna delle culture in dialogo ha mai rinunciato alla propria identità; del resto se non si ha un’identità, una storia, un carattere non c’è nulla su cui confrontarsi, non c’è nulla da offrire all’altro per arricchirne la sostanza. Il timore del conflitto, proprio di una società in decadenza, porta a rinunciare all’identità, perché l’identità genera inevitabilmente il conflitto con la diversità. Solo che questo conflitto costituisce l’insostituibile premessa dell’incontro con l’altro, come la storia europea ha dimostrato nel corso della sua intera vicenda. L’ambiguità dell’attuale società europea si annida nell’incomprensione che anche il rifiuto dell’identità costituisce un’identità, la quale si rivela molto più totalitaria e intollerante del suo opposto, appunto perché è costituita solo da negazioni. Se affermo me stesso in senso positivo, infatti, sono portato a cercare nel diverso da me quegli elementi che possono arricchire la mia costruzione, che manterrà l’unità del suo stile ma si gioverà degli apporti altrui. Se invece costruisco la mia identità solo sulla negazione, ad esempio l’antifascismo o l’antirazzismo, la prospettiva che posso concepire è unicamente nella repressione e nella distruzione di ciò che non solo non capisco, ma non ho nemmeno l’interesse e la volontà di comprendere. È stato giustamente detto che il fascismo ha solo un modo per tornare, quello di presentarsi come antifascismo. Lungi dal temere ciò che è identitario, allora, dovremmo piuttosto temere il pericolo che si annida nella società liquida che genera i mostri del cedimento dei valori, dell’ignoranza della storia, del rifiuto della vita.