Mi sfilo il camice color carta da zucchero

 

Mi sfilo il camice color carta da zucchero

Mi sfilo il camice color carta da zucchero, che mi distingue in qualità di Gastarbeiter (lavoratore ospite), e lo ripongo nell’armadietto di metallo. Sono passate da poco le 17, anche oggi ho terminato il turno a incartare merci dietro il bancone della Kasse 5, al Kaufhof (catena di grandi magazzini) di Francoforte. A metà anni ’60. Sotto indosso il maglione rosso con l’aquila nera stilizzata, che mi sono fatto ricamare da una sarta a Carpegna nell’entroterra della costa adriatica, tra Rimini e Pesaro. In effetti il risultato lascia alquanto a desiderare – sembra quasi un pollo spennacchiato -, ma non ci vuole troppa fantasia per rimandare al suo valore simbolico. E’ il mio omaggio, un po’ rozzo e ingenuo, alla Germania a cui guardo idealmente.

Oggi sarebbe impossibile indossarlo. Per le feste natalizie un innocuo Babbo Natale è stato precipitosamente ritirato perché, salutando con il braccio levato, qualcuno vi ha ravvisato eco di adunate con torce e croci uncinate in quel di Norimberga notti di Valpurga ‘Heil Hitler!’ rigurgiti tratti da Il Trionfo della Volontà (il celebre film di Leni Riefenstahl). Per molto meno sarei stato impacchettato, un po’ di rieducativa cella e rispedito oltre il confine. Già al termine del conflitto, venne imposto a tutti i tedeschi dell’area occidentale un questionario (Der Fragebogen, titolo originario del libro di Ernst von Salomon) – sotto il tallone sovietico non se ne curarono, più brutali e più intelligenti -, poi, dagli anni ’70 su pressione e interessi internazionali,  rimozione e senso di colpa: il suicidio di una Nazione…

(E mi vengono a mente le tante volte che mi sono recato a Predappio, fin da quando avevo quindici anni, sempre qualcun altro a renderne omaggio, ai negozi ricolmi di paccottiglia inneggiante al Duce. E, oggi, i volti stolidi di un Fiano e della Boldrini, i loro tentativi insani e maldestri di dissolverne la memoria). Fuori mi attende Otto R. (ho conservato la memoria del nome e solo l’iniziale del suo cognome), quarant’anni e da oltre quindici anni vive e lavora a Francoforte. Ha certo notato il maglione e mi ha chiesto, con tono deciso e garbato, se poteva offrirmi una birra. ‘Gern!’ ed ho ammiccato. Ovunque vada, non riesco a sottrarmi ad incontri e a esperienze che mi facciano partecipe d’una comunità. ‘Combattere è un destino’, ne sono fiero e consapevole, anche solo ascoltando chi di quel destino s’è fatto carico in feldgrau. In modo riservato perché da buon soldato sa subordinare il proprio Ego al senso del dovere, senza ostentazione o ricerca del plauso. (Altra storia, in qualche misura connessa, medaglie e attestati concessi a partigiani veri e presunti tanto che Ferruccio Parri – si legge in un anonimo rapporto di polizia – ebbe a lagnarsene al primo congresso dell’ANPI. Troppi e troppe le pretese…). 

Otto R. è nato nel 1921 a Marienbad nel territorio dei Sudeti, da poco ceduti alla nascente repubblica di Cecoslovacchia con il diktat di Versailles. Nel 1939 parte fra i primissimi volontari, frequentando la scuola di guerra per cacciatori di carri a Cobur – i Panzerjaeger. Decorato più volte, l’11 ottobre del 1943 ottiene la Ritterkreuz (mi mostra, estraendolo dal portafoglio, il ritaglio di giornale). Difatti il 12 settembre, sul fronte russo, la grande occasione: in soli dodici minuti mette fuori combattimento ben 10 T34 sovietici. Una foto lo ritrae in uniforme, biondo, il volto aquilino. E’ tutto quanto gli rimane e i ricordi, indelebili. Poi la prigionia fino al ’49 e, impossibilitato a tornare nella terra d’origine, si trasferisce a Francoforte. Fa parte di quell’esodo di milioni di tedeschi dell’Est sotto la spinta brutale dell’Armata Rossa. Ci frequentiamo per un po’, un paio di volte m’invita a cena a casa sua, conosco la moglie i figli .Mezzo secolo e più. Più della metà di una esistenza. Scriveva lo storico Joachim Fest come ‘il passato è sempre un museo immaginario’. Vi sono dei gesti toni della voce allora essenziali, oggi intraducibili. Il tempo e le circostanze cambiano e, sovente, noi con loro. Perché, dunque, scrivere qui di questo incontro, in fondo minimale tanto che, per decenni, è rimasto in qualche ripostiglio polveroso della memoria? Perché io voglio proteggere, magari con poche armi e spuntate, il tempo eroico degli uomini – uomini in camicia nera uomini in grigioverde, alleati oltre ogni divergenza sospetto ostilità, che pure vi furono e pesarono, soprattutto contro gli storici o presunti tali (i figli del presente indecente e servile) che di queste distinzioni fanno vanto e alibi. Testimoniare, ancora una volta, ‘anche se tutti, noi no’. Pochi soli fieri e felici…

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