“L’architettura non interessa più nessuno” titolava un’intervista, dello scorso anno, del quotidiano Repubblica all’architetto Vittorio Gregotti , novantenne maestro dell’antica professione di Dedalo, Celebre per il quartiere Bicocca a Milano, criticato per quello Zen di Palermo, ha al suo attivo più di 1600 progetti firmati nella sua carriera. “Non interessa”, camminiamo nell’immensa prateria della globalizzazione con la colt del cellulare che ci stuzzica la mano, mentre il mare d’erba del film recitato da Spencer Tracy ondeggia, noi siamo virtuali, incollati al display per chattare. E’ un fatto oggettivo, senza troppo quisquigliare copuliamo con la grande mela meretrice, tra poco con gli androidi consenzienti, l’alternativa sembrerebbe rinchiuderci nell’armadio protetto; così fece un mio lontano prozio papalino all’entrata dei bersaglieri a Roma quel XX settembre. L’Architettura sembra morta, senza scomodare Zarathustra, è un abito da collezione anni ‘30 fuori moda, sartoria artigianale di Rosa Genoni, un made in Italy da museo fiorentino, non si sposa col basilisco della finanza committente, pare neppure coi fruitori. Se si muore occorre una data, nel nostro caso almeno il decennio, direi fu negli anni ’50, quelli del ruggito, quando il boom italico non fu soltanto frigo e utilitarie ma soprattutto l’industria del mattone. E’ la democrazia impastata col bisogno di case la betoniera dove a saetta s’infilò, assai collusa e protetta, la serpe dell’usura. Siamo oggi infestati da architetti ronzanti come uno sciame di moscerini impazziti, ce ne sono talmente tanti che ogni condominio che si rispetti dovrebbe averne uno per regolamento. Ho visto giovani Callicrate non tenere mai in pugno una matita, la tecnologia dell’autocad l’ha resa, da tempo, un pezzo d’inutile grafite, quando, un dì, il segno a mano libera era il fondamento non solo per schizzare rapido la lampadina che s’era accesa ma soprattutto l’antefatto: indagare l’esperito secondo la lezione di Leonardo nel Rinascimento. Michelangelo bambino fu un pessimo allievo, scappava dal precettore per aggredir la pietra, ma una volta ammesso al Giardino di S. Marco del divin Lorenzo s’immerse, suo malgrado, nella piscina della cultura umanistica a tal punto da diventar poeta, discettare di filosofia e teologia, trasformarsi nel più grande intellettuale del suo tempo, travasando quel sapere nei suoi tribolati lavori. Ha ragione Gregotti: senza l’umanesimo non si fa architettura, si possono disegnare involucri bizzarri, sorprendenti quanto vuoti di contenuti perché senza radici, attaccati dal virus dell’omologazione adatto alla desertificazione socio-culturale. Così, per semplificare, i grattacieli partiti dalla Chicago di Sullivan per guadagnare in verticale sul costo dei lotti , sono sbarcati in tutte le turbometropoli senza distinzione di Paese, unica eccezione Roma alla quale la cupola del Buonarroti ha, finora, precluso il toccare la sua altezza (vedi il recentissimo stralcio dei grattacieli dal progetto di stadio della Roma ). L’architettura global sniffa cocaina dal barocco, l’architetto deve stupire sia si tratti d’ una vetrina o di un titano in ferro e vetro, assecondando la filosofia che il prodotto è il biglietto da visita del committente senza distinzione tra pubblico e privato, la tecnologia è sola sul podio, tutto il resto è poco o niente. Così la vela di Calatrava s’erge solitaria su una barca di cemento aspettando invano la sorella, la nuvola di Fuksas resta in gabbia per di più appoggiata, non si leverà mai a conquistare il cielo, era più leggera quella che il suo ideatore abbozzava sul cruscotto dell’auto. L’albero della vita dell’Expo ambrosiana, da logo borioso, diverrà un tristo albero della cuccagna per cornacchie, assai simile al malcapitato “spelacchio” romano e così via. Certa architettura da luci della ribalta non interessa più nessuno, è vero, mentre brucia nella steppa la fiamma del giusto diritto ad una casa dignitosa ad un lavoro, S. Agata a Catania è occupata dai senza tetto, SS Apostoli a Roma dai migranti, ecc…la forbice sociale si allarga, i cartoni vicino ai grattacieli. Le archistar disegnano per le ricche commesse, meretricio professionale del mercato, svuotano volutamente di cultura i loro oggetti, possono essere moltiplicati per mille e mille luoghi, sempre uguali, stesso pensiero di chi vende auto, smartphone, cioccolatini. Argomenta bene Antonio Socci su Lo Straniero circa la parabola d’Ulisse, un susseguirsi epico di avventure coraggiose, di amori, di fughe, un periplo di peripezie ma con dentro la vocina del richiamo persistente alla sua Itaca, alla sua di famiglia, senso virtuoso di valori e appartenenza. Perché l’architettura non declini a Polifemo il nome di “Nessuno” avrebbe bisogno di sfilarsi la tuta di Thayath buona per tutti senza distinzione e mettersi a studiare musica, , teatro, letteratura, storia, filosofia prima di sedersi a disegnare magari usando quella vecchia matita. Scriveva Giuseppe Terragni: “La sistemazione di una città italiana equivale all’opera sapiente di un bravo chirurgo. Bisogna sentire l’orgoglio di un’eredità gloriosa senza rinunciare a vivere di una vita propria. In arte bisogna creare un patrimonio nuovo accanto all’antico non sopra le rovine dell’antico”, Come a dire che l’albero non deve mai prescindere dal terreno dove il saggio contadino decide di piantarlo.