La crisi dei partiti

 

La crisi dei partiti

Il partito è stato il testimone del ‘900, sinonimo di aggregazione, comunità, fede e militanza, espressione delle forze intellettuali e della vitalità della nazione, esso ha rappresentato la declinazione politica per eccellenza del “nostro” secolo delle ideologie. Analizzando però la situazione attuale, in particolare lo sviluppo della scena politica degli ultimi venti anni, è molto facile rendersi conto come questa forma di aggregazione sociale, stia vivendo una grave crisi, e sia in procinto di essere dichiarata morta. Fuor di retorica, il partito come strumento di azione politica, deve essere considerato nel bene e nel male espressione della società, ed infatti ha seguito perfettamente lo sviluppo della società di cui è (era) espressione. Di pari passo con l’evoluzione del sistema liberalcapitalista, da mezzo di azione politica e prassi ideologica, il partito è diventato formula di potere, protagonista della partitocrazia, distrutta all’inizio degli anni ’90 con mani pulite. Dopo la caduta del muro di Berlino, raccogliendo i frutti del “sessantotto”, mito fondativo della post-modernità (Preve), il liberismo si è fatto unica possibile visione del mondo, totalizzante, assoluto ovvero slegato da qualsiasi freno di natura comunitaria, ed ha intrapreso la strada della spoliticizzazione della società, la quale non è più manifestazione politica, cioè risultato della volontà e delle necessità della comunità umana, bensì è diventata sintesi dell’economia finanziaria mondiale. Nella società spoliticizzata e globale in cui viviamo oggi, non è più tollerata la presenza di alternative ideologiche al liberismo, oggi i pochi partiti che si contendono il governo (e non il potere), non hanno sostanziali differenze nei programmi, non propongono alternative alla privatizzazione selvaggia della società, o alla distruzione totale della componente identitaria e culturale del nostro popolo, poiché non possono e non vogliono farlo, e questo è palese agli occhi di tutti. Ai partiti oggi è demandato il compito di garantire al popolo oppresso l’illusione della scelta, essi sono parvenza di democrazia e nient’altro. Essendo questo lo stato dell’arte, viene da chiedersi quali prospettive ci siano per l’azione politica, e soprattutto se la, ormai prossima, fine dei partiti, sia veramente una tragedia. Enucleando la questione più a fondo, è facile notare che il partito è stato sì strumento di pluralità, ma pur sempre interno ad un sistema ideologico a noi ostile, inoltre esso divide il popolo e lo allontana dalle sue prospettive rivoluzionarie, poiché è espressione non della totalità della nazione, ma di una minoranza di essa, che mai può rappresentare tutto il popolo. La verità, è che la nostra idea non è riducibile al mero riformismo parlamentare, è qualcosa di più complesso che abbraccia ogni ambito della vita dell’individuo e della comunità, è una concezione del mondo che mira alla costruzione di una società organica e corporativa, quindi veramente democratica, poiché contemplativa di tutte le forze della nazione, e non solo della “dittatura” di una minoranza del popolo, non scelta, ma imposta e vagamente legittimata da una “x” su una scheda elettorale. In poche parole, non abbiamo necessariamente bisogno dei partiti fare politica. Dopo anni di regime tecnocratico, nel quale solo l’economia è verità, e dove l’unica legge è quella del mercato, in un mondo ridotto all’uso e al consumo, il popolo, da buon “animale sociale” qual è, sta ricominciando a sentire il bisogno di fare politica, quella vera. Sono innumerevoli i segnali che ci portano a questa conclusione, il più chiaro è la nascita di uno sterminato universo di comunità militanti e culturali che, formando i giovani, organizzando dibattiti, lavorando per il sociale, fanno politica nel senso più alto del termine, poiché fanno un servizio alla comunità nazionale. A mio avviso è necessario cogliere l’essenza del momento storico, e sfruttare la fine dei partiti per ricominciare a fare politica sul serio, per il bene del popolo e della Patria.

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