Stare al passo

 

Stare al passo

Il rapido fuggire via del tempo è un dato di fatto che tutti sperimentiamo. Nel momento stesso in cui ci fermiamo a pensare al flusso inarrestabile del nostro vivere, il presente attuale è già ricordo del passato e il futuro è sopraggiunto per divenire a sua volta il nostro presente.

Nella baraonda aritmica del mondo iperconnesso, lo spettro di un eterno presente che si dilegua tra le fragili angosce della ricerca di sé è una chimera assai difficile da esorcizzare. Vorremmo ogni cosa sotto controllo, eppure niente di rimane fra le mani. È come quando si tenta di afferrare la sabbia: poco o niente della infinità di granelli rimane a noi. Allo stesso modo, oggigiorno pretendiamo di avere a portata di mano tutto ciò che accade. Lo facciamo con i supporti digitalo modulati che, diciamoci la verità, sono drammaticamente enti meta-antropologici di cui non possiamo più fare meno. Su di essi controlliamo gli aggiornamenti di stato, i post pubblicati, le fotografie ed i video condivisi, le “storie” che raccontano, su uno schermo, ciò che sta realmente accadendo attorno a noi. La frenesia del conoscere cosa sta facendo l’altro, che sia il coniuge, il parente, l’amico del cuore o semplicemente un tipo qualsiasi che si trova nel mondo digitale, è un vizio di sensualità anestetizzante. Provate voi a impedire ad un “social media addicted”, come li definiscono i sociologi d’oltreoceano, di guardare il proprio cellulare per più di un paio di ore. Avverrà in lui una crisi talmente forte che l’intero organismo potrebbe addirittura compromettersi. O fate l’esperimento di mettere cinque persone in una stanza, senza connessione internet, per un’ora, e scoprirete quanto è difficile guardare un volto, scoprire l’altro-da-sé, vivere il dramma dell’incontro, dell’esser-ci, in quel ritrovarsi gettati nella “realtà reale” che mette in gioco non tanto la ginnastica del pollice opponibile sullo schermo, ma l’anima.

Schiavi di un prodotto realizzato da schiavi, ci siamo resi. E neppure così tanto intelligente (“smart” in inglese significa appunto “intelligente”), siamo sinceri.

Come è possibile che il traguardo del primo ventennio del Terzo Millennio sia la ultra atomizzazione narcisistica della persona, il cui unico scopo è totalizzare un annichilimento di sé che travalichi il limite stesso del non ritorno, correndo con fuga ansimante alla autodistruzione quasi fosse la sorgente stessa della vita?

È il dramma dell’uomo che vive senza un perché, che ha smarrito il senso, che non riconosce la strada di casa. Oltre l’orizzonte del post-umano, cosa ci aspettiamo di trovare?

Per stare al passo coi tempi ti dicono che devi scendere in campo, mettere la tua faccia su un social e fare il gioco dei click.

Allora io dico “no”. Non mi piegherò alla logica invertita del bi-pensiero debole, dove tutto e il contrario di tutto sono sintesi della vacuità.

Voglio camminare usando le gambe vere per girare il mondo; voglio mettere la mia faccia non sui social, ma davanti quella di un Altro che mi obbliga a rientrare nel più profondo di me per poi uscirne trasfigurato; voglio rischiare il sangue, non il numero dei follower, per gridare che sono vivo, e lo sono perché sono vero e il mio cuore batte forte in questo mondo per trascenderlo.

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