Welfare aziendale: sembra positivo ma è oneroso e discriminatorio
Negli ultimi anni, si sta diffondendo nell’ambito dei rinnovi contrattuali nazionali e aziendali la tendenza ad istituire il cosiddetto “welfare aziendale”. Di che cosa si tratti è presto detto: poiché è ormai palesemente noto – e vissuto quotidianamente – il fatto che il sistema sanitario pubblico non riesca più a dare le prestazioni per cui è stato istituito (e finanziato, dai contribuenti, tramite lo Stato e le Regioni), si è pensato di coprire questa carenza accollando al datore di lavoro il costo di una copertura assicurativa privata a favore dei suoi dipendenti, al fine di far loro avere tempestivamente le cure che si rendessero necessarie.
La cosa è stata accolta con molto interesse dai sindacati e dai lavoratori interessati, perché così si sentono sicuri di avere la possibilità di curare la propria salute (e quella dei suoi familiari, ove la prestazione sia estesa anche a loro) quando occorra, senza lungaggini e liste di attesa. Recentemente, con il contratto nazionale dei metalmeccanici, è stata istituita la copertura sanitaria integrativa per tutti i lavoratori interessati a quel contratto in modo automatico (ovvero non è richiesta la loro adesione individuale, come avviene in altri contratti).
Indubbiamente, visto sotto questa angolazione, questa tendenza è certamente positiva perché interviene sul principale aspetto della vita umana, la salvaguardia della propria integrità fisica. Però c’è anche un aspetto che non viene preso in considerazione: il costo, chi lo paga?
Nessuno può seriamente pensare che il datore di lavoro che accetta di sottoscrivere questo impegno lo faccia accollando la spesa (che ovviamente c’è) all’impresa, facendo così lievitare il costo del lavoro. Nella realtà, quella spesa si sostiene rinunciando agli aumenti periodici delle retribuzioni che pur sarebbero dovuti sia per mantenere inalterato il loro potere di acquisto sia per redistribuire ai lavoratori una parte dei guadagni derivanti dalla maggiore produttività e dagli utili dell’azienda o del settore economico. Insomma, in altri termini il lavoratore si paga da solo la copertura integrativa sanitaria che è costretto a darsi, tramite il contratto di categoria od aziendale: una spesa che avrebbe potuto evitare se il servizio sanitario nazionale funzionasse come dovrebbe (e com’è prescritto dalla Costituzione all’art. 32), e che avrebbe potuto destinare a migliorare la sua qualità di vita, a fare acquisti che possono anche rilanciare gli scambi.
Ricordiamo che la stessa cosa già avviene – da tredici anni – con la previdenza complementare per integrare la pensione dell’INPS, il cui costo è pagato dai datori di lavoro e dai lavoratori, i quali per di più sono obbligati (ove aderiscano: in questo caso l’adesione è volontaria) a conferire anche la quota annuale della liquidazione (il “trattamento di fine rapporto”).
Vi è un’altra considerazione da fare, oltre al costo. Poiché non tutti i settori e non tutte le aziende hanno la capacità economica, o la volontà, di stipulare queste coperture integrative, con il passare degli anni si realizzerà in Italia una discriminazione tra lavoratori maggiormente protetti (anche a loro spese) e lavoratori affidati alle scarse tutele di uno “Stato sociale” in progressiva liquidazione. Si pensi in particolare a tutta l’enorme massa dei lavoratori dipendenti dalle piccole imprese, soprattutto nel terziario, e i lavoratori con contratti temporanei che sono costretti a cambiare continuamente lavoro e settore di attività.
Si realizzerà cioè il sistema esistente nello Stato liberal-capitalista per eccellenza, ossia gli USA, dove solo chi ha denaro può farsi assicurazioni sulla malattia e sulla pensione: gli altri, devono contare sulla fortuna di non ammalarsi o su proventi straordinari per una vecchiaia serena.
Questo, in effetti, è il traguardo che occultamente si sono posti i governi liberal-europei che ci hanno amministrato finora, a tutto vantaggio delle lobby assicurative e bancarie che li impongono al popolo.
Ma viene fatto in modo del tutto inavvertito, anzi visto in modo positivo, non valutando gli effetti indotti nel futuro, che qui abbiamo cercato di esporre.