Tu verrai

 

Tu verrai

Ho trovato, fra vecchie carte e riviste e ritagli di giornale, riposti in uno scatolone ricoperto da sottile patina di polvere, una poesia inedita di Robert Brasillach e datata 17 novembre 1932. Scritta, dunque, all’età di ventitré anni.

Egli era nato, infatti, il 31 marzo del 1909, a Perpignano, nella Catalogna francese, tra il Mediterraneo e il confine dei Pirenei con la penisola iberica. La solarità delle terre del Sud, il rosso e l’oro i colori ricorrenti, vaghe origini arabe, una immediata attrazione per la Spagna gli si proposero simili a carne ossa sangue. E mi viene a mente il romanzo suo La ruota del tempo ove, nel capitolo La notte di Toledo, egli ci dona un esercizio di erotismo, mai volgare e sempre poeticamente realista. (Quarant’anni dopo, tramite l’amico José Luis, nel medesimo luogo, ricostruito dopo lo scempio della guerra civile, quante le emozioni le vibrazioni lenzuola stropicciate sudore sperma e, dalla finestra aperta, il silenzio e in cielo un tripudio di stelle).                                                                                           

Traduco, coniugando correttezza filologica con personale sensibilità. I poeti sono simili agli eroi sul campo di battaglia, soli nel verso e liberi d’agire sulla parola…              

‘Tu verrai, cara Morte, simile alla sera che si distende su le banchine del porto – e non sarà poi così triste – se ci porterai memoria di quella musica semplice – e del canto che intonavamo mentre si saliva a bordo. – Il fruscio intenso della vela arrotolata – non distrarrà lo sguardo dall’Oceano, anche allora, anche in quel momento,  sapremo scordare l’odore ancora fresco del catrame – e l’umidità fumigare dalla cima dell’albero maestro? – Quando, da bambini, si correva verso le pesanti funi – e alle barche attraccate agli anelli di ferro, guardando, seduti sulle bitte di ormeggio, la marea crescere dolcemente,  i nostri cuori, cara Morte, si resero dimentichi della riva, prigionieri delle rozze canzoni per uomini già avvezzi al mare, pronti a salpare per ignota destinazione – con la sacca in spalla, le ragazze nel cuore e in tasca il coltello. – Ripensando alla nave ondeggiare libera dall’ancoraggio, al richiamo della terra ferma a cui restammo insensibili, ci sarà concesso perdonare al canto della sirena – l’annuncio della inesorabile quiete e la fine dei bei giorni?’.                                             

Poesia dai toni sommessi, lieve la nebbia di giovanile tristezza, la lontananza… Egli fu cantore, al contrario, dello splendore della giovinezza dell’amicizia della gioia di vivere del conseguimento della felicità semplice e possibile. Valori desueti, perduti tra le macerie dell’Europa devastata e dall’animo nostro corrotto. Ed egli stesso ne fu travolto la mattina del 6 febbraio del ’45, legato al palo dei condannati a morte, dodici bocche da fuoco avide del suo sangue, la sciarpa rossa al collo e la fotografia della madre sul cuore. ‘Coraggio!’, il suo estremo grido disperato e fiero. Doveva ancora compiere trentasei anni. Lasciandoci a testimoniare la fierezza e la speranza, le due sole virtù a cui ormai si affidava dietro sbarre e chiavistelli… e verso quel Fascismo ‘immenso e rosso’ a cui, nonostante tutto e comunque, ci siamo sforzati di restare fedeli.

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