Altri tempi, altri miti

Altri tempi, altri miti

Da ottobre 2016 a Gennaio 2017 tornava, dopo otto anni, nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, la Quadriennale di Roma. Nacque nel 1927 da un’idea di Cipriano Efisio Oppo  talentuoso pittore, deputato al  Parlamento del Regno, dirigente del Sindacato degli artisti, soprattutto grande manager divulgatore dell’arte nazionale. Questa vetrina dell’italica Musa fu la sua rosa all’occhiello, riuscì perfino ad esportarne il profumo nella superba Parigi e non contento si spinse oltre Oceano, fino all’Empire state building. Un poker le Quadriennali da lui dirette coll’unico obiettivo di far conoscere, valorizzare il fare arte nazionale, schiudendo questa finestra al mondo anche in tempi di autarchia, l’ultima ante guerra, in versione un po’ dimessa, si tenne tra maggio e giugno del ’43, il 25 luglio poi ci fu in Gran Consiglio.

Non c’è mai stata un’arte ufficiale del fascismo, lo testimoniava apertamente proprio la quadriennale, un percorso tra movimenti, stili diversi, dai realisti ai metafisici, dai futuristi, ai muralisti fino agli astrattisti milanesi e via dicendo. La Q. romana era la più alta competizione artistica nazionale, lasciando alla Biennale lagunare il compito di testimoniare lo stato della ricerca artistica internazionale. Oppo per far salire la febbre della sua creatura aveva messo in atto incentivi economici, premi per gli espositori, seguiti dall’acquisto di molte opere da parte dell’Istituzione. Post bellum la Q. si trasformerà in Ente pubblico, la prima fu ospitata, nel 1948, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Valle Giulia, il Palazzo delle Esposizioni di Pio Piacentini ( babbo di Marcello) era inagibile per le diverse occupazioni subite.

Dal 1950 al 1983 scorre l’era di Fortunato Bellonzi nominato Segretario Generale dell’Ente Quadriennale riformato, mitiche le mostre degli anni’50 sul Seicento europeo e sul Settecento italiano. Roma era tornata caput mundi delle arti, tempi di competizione nella settima arte tra Cinecittà e Hollywood, tempi di baruffe creative nelle arti tra astrattisti e neorealisti, fermenti intellettuali conditi dal nobile disincanto d’una città in passerella su via Veneto, amata-odiata da Ennio Flaiano, passata su pellicola dalla Dolce vita felliniana, era il 1960. Accostandoci al nuovo millennio ricordiamo che l’Edizione 2012-13 fu cancellata per mancanza di fondi, con la nuova riforma degli Enti la Q. era sui bilanci del MIBACT e del Comune di Roma, governo Monti, sindaco Alemanno.

Veniamo alla XVI mostra 2016-17 targata Franceschini, resa possibile dal contributo straordinario del MIBACT in sinergia economica con l’Azienda Speciale Palaexpo.

Il titolo Altri tempi, altri miti, sintetizzava cosa si poteva vivere visitando la mostra, un racconto per flash dell’arte italiana odierna, articolato in dieci sezioni, ciascuna con il curatore di un tema, 99 espositori e 150 opere con la possibilità di confrontare l’arte di ieri con quella di oggi, una dialogo teso, critico, un filo tra passato e innovazione, tra gli scenari internazionali e il noi. Tempi attuali del nuovo millennio incarnati dai miti tecnologici, policentrismo della ricerca sui temi caldi dell’oggi dimostrando l’evoluzione dei linguaggi. Una kermesse variegata di artisti giovani con dcurricula di gran rispetto, pagine di una narrazione che cattura lo spettatore nelle opere, queste perdono però la loro vita autonoma per piegarsi alle scelte tematiche dei curatori come lamentava l’artista Giuseppe Penone. Abbiamo visto molte cose interessanti, nuove tecnologie, semantica tech, installazioni, robotica applicata ai materiali, riflessioni sullo status quo del Bel Paese, ecc… ma quest’arte, non per sua colpa, non entra nella cultura collettiva, non genera identità nella memoria, è una pustola dell’ homo tech, sembra la puntata di una fiction infinita, iato tra essere ed esserci, l’arte è nuda spoglia della sacralità acquisita, ci è apparsa marginale nel tentativo di adeguarsi ai tempi.

Nell’era del virtuale ci chiediamo ancora: ma dove andiamo? Abbiamo fame di valori solidi in una vita liquida, parafrasando De Chirico dovremmo riscoprire l’antico mestiere per volare in alto.

 

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