La globalizzazione: considerazioni finali
Combattere la globalizzazione non comporta devastare città, come certe frange no-global legate ai centri sociali figli di quella stessa degenerazione che dicono di combattere, e nemmeno limitarsi a celebrare un buon tempo antico, lamentando la fine di un inesistente paradiso terrestre. Combattere la globalizzazione comporta combatterne gli strumenti, primo fra tutti la logica del profitto, la riduzione della vita a economicismo, la derubricazione dei rapporti umani a logiche mercatiste condizionate dal dare e avere.
Forse i tempi sono maturi per assistere al tramonto dell’ideologia globalistica: ne sono segnali gli evidenti e continui cortocircuiti intellettuali, le grida, di manzoniana memoria, con le quali si pone sotto accusa qualunque atteggiamento, pensiero e parola vada a colpire il pensiero unico, pervasivo nella sua liquidità, infido nella sua liquidità, inconsistente e perciò capace di calarsi in qualunque forma, anche politica, sia congeniale alla sua perpetuazione. Il progetto politico della globalizzazione sembra avviarsi al fallimento sotto il peso delle generate antinomie: da un lato l’esportazione del modello politico liberaldemocratico dell’Occidente presuppone l’esportazione degli stessi standard di vita occidentali, il che confligge con il fatto che l’Occidente non sia disposto a una più equa distribuzione delle ricchezze e anche con il rifiuto di questo standard da parte di quelle culture che lo avvertono eversivo delle loro tradizioni e della loro fede.
Nello stesso Occidente, poi, il ciclo espansivo si è esaurito; si vive con i risparmi della generazione precedente, mentre la necessità di sfruttare ancora più intensamente le risorse naturali pone all’uomo una domanda mai posta: riusciremo a sopravvivere su questo pianeta ancora a lungo? Dinanzi a tutto ciò il globalismo, non potendo prendere atto del suo fallimento, rilancia con un altro dei suoi tanti bluff e lamenta che le crisi depressive siano dovute all’assenza di un governo globale. Per realizzarlo, assistiamo a movenze tipiche dell’attuale fase di Zivilisation: negazione delle specificità storiche dell’individuo, del suo appartenere a un popolo e a una cultura, per isolarlo quale individuo assolutamente uguale agli altri, senza differenze e perciò stesso senza identità, in ottemperanza a quanto sostenuto dall’anarcocapitalista Friedman, per il quale le evidenti distorsioni del libero mercato sono dovute al fatto che ce n’è ancora troppo poco e soprattutto dal fatto che la vita umana e sociale non è ancora stata completamente permeata dai valori economici.
Se la vita non è stata ancora interamente permeata dai valori economici, almeno in alcuni individui, è perché la vita si ribella sempre a ciò che tende a soffocarla. Su questo residuo di umanità occorre fare leva per il futuro, perché, per parafrasare la dottrina cattolica, non basta la grazia di credere in un mondo diverso, ma occorre anche la volontà di bene operare per renderla operante. Per noi e per chi verrà dopo di noi.